mercoledì 7 dicembre 2016

mi si intervista (mi si)

Sul sito di Umbria Poesia, Martina Pazzi mi fa quattro domande e io cerco di rispondere.

Crescendo e maturando (ormai ho passato la fatidica soglia degli -anta), ho imparato sempre più ad apprezzare il valore salvifico dell’anacoluto. [...]
È una lezione che mi viene anche da due delle mie grandi passioni: il Giappone e il jazz. Nella calligrafia giapponese, e nell’arte giapponese in generale, non è la perfezione ad essere apprezzata, quanto piuttosto il suo contrario. Una ciotola da té è più bella se è grezza, o addirittura se è rotta e poi riparata, o se porta su di sé la patina del tempo. Di una calligrafia, si apprezzano i segni del pennello, le piccole macchie d’inchiostro cadute per caso sul foglio. C’è persino una parola per definire questo concetto: “wabi-sabi”, ossia la bellezza di ciò che è caduco, impermanente.
Per quanto riguarda il jazz: i grandi jazzisti sono stati sempre maestri nel valorizzare l’errore e trasformarlo in arte. Thelonious Monk diceva che l’importante non è non fare errori, ma fare gli errori giusti; e Miles Davis era famoso per la sua abilità nel trasformare le note false, le stecche in inaspettati punti di svolta. Solo accettando il momento presente, con la sua imperfezione, si può creare qualcosa di veramente bello.
Attenzione: non sto lodando il lavoro pasticciato o l’incuria. Sto solo cercando di preservarmi da quella perfezione parnassiana che rende un’opera simile a un cadavere. Anche quando disegno – un’altra delle mie passioni – mi piace lasciare sempre un dettaglio incompiuto, una linea non completamente finita, una campitura grezza. E confesso che alcuni dei miei versi che amo di più sono nati per caso, da un errore o da una svista.


(Tutta l'intervista si può leggere qui.)

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