In fondo ogni superficie è un
alternarsi di piani e di pliche.
Partendo dal piano delle costole, si
incontrano – salendo – i dislivelli dei seni, con al culmine le
rugosità dei capezzoli; e poi, discendendo dal lato opposto, i cavi
gemelli delle ascelle, dov'è custodito l'acidulo che ogni mattina
ricerco e ritrovo.
Sempre partendo dalle costole, si
possono seguire invece i crinali dei fianchi, le dorsali iliache, e
di lì scendere verso la dolina dell'ombelico, e poi ancora lungo le
due pliche convergenti dell'inguine, in fondo a cui si cela, oscura e
molle e odorosa, la plica delle pliche.
A questo punto si tratta di scegliere:
proseguire verso le periferie, esplorando la cavità poplitea, e poi
l'inarcatura delle caviglie fino alle molteplici forre delle dita?
Oppure virare verso l'alto, dove aspetta la curvatura il collo, il
labirinto dell'orecchio, e infine la bocca in cui calarsi al buio,
senza altra guida che il cieco tatto?
L'importante è che, alla fine, le
pliche siano annullate, che ogni cavità trovi la sua sporgenza, ogni
vuoto il suo pieno, che l'aderenza sia perfetta.
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