giovedì 21 luglio 2011

"Accipe filium tuum..." (prima parte)


L’uomo al volante tirò fuori dalla tasca un fazzoletto di carta e cominciò ad asciugarsi il sudore. Rovesciava da una parte all’altra la grossa testa cubica, per raggiungere la nuca e le spalle; poi gettò il kleenex dal finestrino, si aggiustò la giacca e ingranò la prima.
Avanzò con brevi colpi di clacson tra la calca di zaini e giubbotti colorati. Il fuoristrada, tutto nero e luccicante di cromature, somigliava a un grosso iroso tricheco in mezzo al suo harem.
Il ragazzo salì in macchina, gettò lo zaino sul sedile posteriore e iniziò a digitare fitto fitto sul cellulare.
“Ciao, eh?”, disse il padre.
“Ciao”, rispose il figlio senza spostare gli occhi dai tasti.
L’uomo aggrottò le sopracciglia e fece per replicare; poi guardò lo specchietto e approfittò di un varco per immettersi nel traffico.
Il sole ancora estivo arroventava gli abitacoli delle macchine, disposte in una lunghissima fila segmentata dai semafori. Faceva pensare a una immensa mandria in migrazione, dorso contro dorso, verso qualche punto dell’orizzonte offuscato dai fumi di scarico. Il fuoristrada avanzava a passo d’uomo, con scatti improvvisi per infilare la corsia che scorreva più rapida.
Il ragazzo completò il suo sms, lo spedì e aspettò il trillo di risposta, quindi prese un libro dallo zaino e si mise a leggerlo.
“Non leggere in macchina, che ti fa male. Ti cavi gli occhi”.
“Sì”, rispose il figlio; ma continuò la sua lettura.
Per una decina di minuti si sentì solo il motore, sordo sulle marce basse, impennato in ringhi acuti quando l’uomo calcava nervosamente sul gas. Il ragazzo teneva la testa sul libro; ogni tanto sbirciava gli altri automobilisti, che guidavano fissando l’auto davanti alla loro, le camicie sudate e le facce deformate dal rancore.
“Allora, la gita com’è andata? – riprese il padre – Non ti ho neanche sentito rientrare, ieri”.
Il ragazzo fece un vago cenno con il capo, seguito da un mugolio di commento.
“Toccherà parlare con i prof per quei lividi. Possibile che non c’era nessuno a sorvegliarvi?”.
“Papà. – fece il ragazzo, e finalmente si voltò a guardarlo – Ho diciott’anni”.
“Diciott’anni!! – esclamò il padre, e rise rumorosamente – Ma mi scusi, signoria! Oh, ciccio…”.
Fece per dargli un pizzicotto sul fianco, ma il figlio si scansò bruscamente, rivolgendogli uno sguardo di fuoco e contraendo per un attimo il viso in una strana smorfia.
“Diciott’anni! – continuò senza dar segno di aver colto il movimento – A diciott’anni tuo nonno ancora mi correva dietro se la domenica gli rubavo le paste dal vassoio! E sapessi i ceffoni che mollava!”. Poi stette in silenzio per qualche minuto, con un’espressione allegra sul viso accaldato.
Il ragazzo osservava le strade in cui la gente si affrettava verso casa gettando all’indietro improvvisi sguardi da bestia inseguita; altri aspettavano l’autobus, immobili come tronchi secchi nell’aria rovente; una donna era seduta sotto la pensilina, a occhi chiusi, con la faccia rugosa e contratta che ricordava quella di un neonato.
Addossata al muro, una vecchia chiedeva l’elemosina, la testa da mater dolorosa rovesciata su una spalla e una mano abbandonata sulla coscia, con il palmo all’insù. Dal grembo le era sfuggito un ragazzino dai capelli chiari, simili a stoppa sudicia, che ora se ne stava accoccolato sull’orlo del marciapiede e osservava quel che rimaneva di un piccione schiacciato: una chiazza nera e grommosa sull’asfalto, da cui spuntavano una zampa e qualche ciuffo scomposto di penne. Si vedevano anche luccicare parti di interiora, puntolini rosso vivo come braci o chicchi di melagrana.
“E poi, – ricominciò il padre – una gita a scuola appena iniziata. Ma c’era bisogno?”.
Poiché il figlio non dava segni di voler rispondere, si rassegnò a continuare da solo. L’avevano vista, almeno, la casa di Giulietta? Bella, eh? Lo sapeva che era lì che si erano fidanzati lui e la mamma? Anche loro in gita al liceo, ed era stata lei che gli aveva chiesto di farle una foto mentre toccava la tetta della statua. E quel manichino del professore di italiano che chiacchierava, chiacchierava… e i secchioni della classe con il castello di Verona che ci batte il sole a mezzogiorno… Sì, ma ormai nemmeno le studiavano più queste poesie... Solo che loro due si erano persi, e tutti lì a cercarli mentre loro se ne stavano su una panchina davanti all’anfiteatro a… Oh, mica si scandalizzava?
Intanto erano usciti dalle vie affollate del centro e percorrevano i viali grigi della periferia, dove le massaie ritardatarie tornavano a casa cariche di spesa, con l'andatura triste e dondolante degli animali da soma. Ogni tanto passavano anche delle donne africane, avvolte in larghe tuniche variopinte da cui sporgeva, nuda, una spalla nera e lucida. Anche loro portavano enormi buste gonfie di pane e di verdura; incrociandosi si mostravano l’un l’altra i denti bianchi in un larghissimo sorriso e rimanevano a parlare per interi quarti d’ora, con le voci forti e acute che rimbombavano nelle strade ormai semivuote.
Il padre accese l’autoradio e cercò un notiziario.
“E le elezioni? Non era oggi che eleggevano i rappresentanti di istituto? Ti hanno eletto…”.
“No”, rispose secco il ragazzo.
“Ma come?! Ma perché?”, fece il padre, e lo guardava con un misto di ira e di sgomento, due file di rughe disegnate ad arco sulla fronte sudata.
Il ragazzo fece spallucce.
“Non ti sei candidato! Non ti sei voluto candidare perché c’era il tuo amico, il marocchino… Assed… Ussud…”.
“Assad. È libanese”.
“Senti, bello di papà – e ora nella sua voce c’era una piega amara di delusione –. È ora che ti svegli. Mors tua vita mea. Lo sai che i prof hanno un occhio di riguardo per i rappresentanti, no?”.
“Che cosa credi di aver concluso con questo bel gesto? – riprese, cercando stavolta un’intonazione più pacata – Pensi che quello adesso ricambierà? No, ciccio, quello adesso se la ride. E magari ti chiama pure minchione. Pensi che sarei diventato vicedirettore se mi lasciavo pestare i piedi dal primo arrivato? Io ci ho lasciato la pelle delle chiappe, in ufficio!”.
E qui cominciò una lunga descrizione dei suoi colleghi, che nella mente del figlio si trasformavano in strani esseri, metà uomo metà pescecane, con la tintarella sempre fresca e i sorrisi tirati a lucido, con vestiti firmati e uffici tappezzati di lauree e di master americani. Le donne gli apparivano invece altissime, inerpicate su tacchi vertiginosi come tante cicogne, con le bocche rosso sangue tese fino alle orecchie in smorfie mostruose. Le vedeva incedere per gli uffici con lunghe falcate da compasso, o dimenare le natiche come giumente in calore di fronte ai dirigenti. Il padre lanciò uno sguardo in tralice al ragazzo: ora si arrotolava intorno al dito una ciocca di capelli biondicci, che spuntavano dal berretto avvolti in treccioline rasta. Durante tutto il discorso non aveva aperto bocca, poi si era rituffato nel suo libro. Cercò di sbirciare il titolo, ma riusciva a leggere solo le prime sillabe del nome.
“Ma che, ha scritto un libro, Naomi Campbell?”.
Il ragazzo si voltò, gli rivolse appena un’occhiata e tornò a raggomitolarsi sul sedile, immergendosi ancora di più nella lettura.

(...continua)

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