Ogni volta che viene
assegnato il premio Nobel per la letteratura si ripete lo stesso
copione: chi? ma chi è? chi lo/la conosce? ma se lo meritava? e
perchè invece non... [
inserire un nome a caso fra quelli degli
eterni papabili]?
Louise Glück
non è sfuggita alla regola. È vero che di suo, in italiano, sono
state tradotte solo un paio di raccolte, per di più a opera di
piccoli editori con scarsa o nulla distribuzione: L'iris
selvatico,
Varese, Giano, 2003; e Averno,
Napoli, Libreria Dante & Descartes / Editorial Parténope, 2019,
entrambe nella traduzione di Massimo Bacigalupo.
Però
di lei si erano occupate, per quel che so, almeno due delle riviste
specialistiche più diffuse nel settore: Poesia
di
Crocetti (n. 170, marzo 2003) e Nuovi
Argomenti (n.
75, settembre 2016). E si tratta comunque di un'autrice che scrive in
lingua inglese, quindi facilmente accessibile a qualunque lettore di
media cultura, tanto più che il suo linguaggio è di solito
piuttosto piano e trasparente.
Quanto
a me, avevo orecchiato il suo nome ma, confesso, non avevo letto
nulla di lei, o se l'avevo fatto non me ne era rimasto alcun ricordo.
Quindi, siccome non mi piace parlare a vanvera, all'annuncio del
Nobel ho cominciato a cercare testi suoi in rete; ho anche fatto quel
che faccio sempre, quando voglio capire un poeta: me ne sono tradotti
alcuni, senza alcun ordine preciso, in base a ciò che trovavo e a
ciò che mi colpiva.
Vi
presento i risultati di questa prima esplorazione. Tutte le
traduzioni sono mie.
Buona
lettura.
*
* *
da:
"The Wild Iris" (2002)
VESPRO
Nella tua assenza prolungata, mi permetti
l'uso della terra, mi anticipi
i proventi dell'investimento. Devo riferire
di aver fallito nel compito, soprattutto
per quanto riguarda i pomodori.
Non penso che dovrei essere incoraggiata a coltivare
pomodori. O, se proprio devo, tu dovresti rimandare
le lunghe piogge, le notti fredde che quaggiù
vengono così spesso, mentre altre regioni
hanno quattro mesi d'estate. Tutto ciò
è di tua pertinenza: d'altra parte
io ho piantato i semi, ho guardato i primi germogli
come ali lacerare il suolo ed è stato il mio cuore
a spezzarsi per la ruggine, le macchie nere che rapide
si moltiplicavano per i filari. Dubito
che tu abbia un cuore, nel senso che
diamo alla parola. Non fai differenze
tra i morti e i vivi, che sono, di conseguenza,
immuni al presagio, potresti non sapere
quanto terrore sopportiamo, la foglia macchiata,
le foglie rosse dell'acero che cadono
persino ad agosto, nel buio precoce: io sono responsabile
per queste piante.
(Testo originale: https://poets.org/poem/vespers)
* * *
IL PAPAVERO ROSSO
La
cosa bella
è
non avere
una
mente. Sensazioni:
oh,
quelle le ho; mi
governano.
Ho
un
signore nel cielo
chiamato
sole, mi apro
per
lui, gli mostro
il
fuoco del mio cuore, fuoco
come
la sua presenza.
Cosa
potrebbe essere una tale gloria
se
non un cuore? O fratelli e sorelle
non
eravate come me, tanto tempo fa
prima
di essere umani? Voi
permettevate
a voi stessi
di
aprirvi una volta, voi che mai
vi
aprireste di nuovo? Perché in verità
ora
sto parlando
come
fate voi. Parlo
perché
sono distrutto.
(Testo
originale: https://poets.org/poem/red-poppy-0)
* * *
da: "Averno" (2006)
UN MITO DI ACCUDIMENTO
Quando Ade decise che amava questa ragazza
costruì
per lei un duplicato della terra,
tutto
identico, fino ai prati,
ma
con in più un letto.
Tutto
identico, anche la luce del sole,
perché
sarebbe dura per una ragazza giovane
passare
così di colpo dalla luce alla tenebra completa.
Un
po' per volta, pensò, avrebbe introdotto la notte,
prima
in forma di ombra tremula di foglie.
Poi
la luna, poi le stelle. Poi niente luna, né stelle.
Persefone
lentamente si sarebbe abituata.
Alla
fine, pensò, l'avrebbe trovato rassicurante.
Una
replica della terra
tranne
che lì c'era amore.
Non
vogliono tutti l'amore?
Aspettò
molti anni,
costruendo
un mondo, guardando
Persefone
nei prati.
Persefone
annusava, assaggiava.
Se
hai un appetito, pensava,
li
hai tutti.
Non
vogliono tutti sentire nella notte
il
corpo amato, bussola, stella polare,
sentire
il respiro quieto che dice
“Sono
viva” e significa anche
tu
sei vivo, perché mi ascolti,
sei
qui con me. E quando una si gira,
si
gira anche l'altro...
Questo
sentiva, il signore delle tenebre,
mentre
guardava il mondo che aveva
costruito
per Persefone. Non gli passò mai per la mente
che
qui non c'era più olfatto,
e
di certo nemmeno cibo.
Colpa? Terrore? Paura
dell'amore?
Queste cose non poteva
immaginarle;
nessun amante le immagina
mai.
Sogna, fantastica come
chiamare questo posto.
Prima pensa: “Il nuovo
Inferno”. Poi: “Il Giardino”.
Alla fine, decide di
chiamarlo
“L'adolescenza di
Persefone”.
Una luce morbida si leva sul
prato ben spianato,
dietro il letto. La prende
tra le braccia.
Vorrebbe dire “Ti amo,
nulla può farti male”
ma pensa
che è una bugia, perciò
alla fine dice
“Sei morta, nulla può
farti male”
che gli pare
un inizio più promettente,
più vero.
(Testo
originale: https://poets.org/poem/myth-devotion)
*
* *
PERSEFONE VAGABONDA
Nella prima versione, Persefone
viene
sottratta alla madre
e la
dea della terra
punisce
la terra: cio è
coerente
con ciò che sappiamo del comportamento umano,
che
gli esseri umani traggono una profonda soddisfazione
nel
far del male, soprattutto
se il
male è inconsapevole:
questo
potremmo chiamarlo
creazione
negativa.
Il soggiorno iniziale
di Persefone agli inferi continua ad
essere
palpeggiato dagli studiosi che
disputano
sulle sensazioni della vergine:
fu consenziente nello stupro,
oppure venne drogata, violata contro la
sua volontà,
come accade tanto spesso alle ragazze
di oggi.
Tutto è ben noto, il ritorno
dell'amata
non corregge
la perdita dell'amata: Persefone
torna a casa
macchiata di succo rosso come
un personaggio di Hawthorne...
Non sono sicura di voler
mantenere questa parola: la terra
è “casa” per Persefone? È
plausibile che si senta a casa
nel letto di un dio? Non è
a casa in nessun posto? È
una vagabonda nata, in altre parole
una replica esistenziale di sua madre, meno
azzoppata da idee di causalità?
Siete autorizzati a non farvi piacere
nessuno, lo sapete. I personaggi
non sono persone.
Sono aspetti di un dilemma o di un
conflitto.
Tre parti: così com'è divisa l'anima,
ego, superego, id. Allo stesso modo
i tre livelli del mondo conosciuto,
una sorta di diagramma che separa
il cielo dalla terra dagli inferi.
Dovete chiedervi:
dove sta nevicando?
Bianco d'oblio,
di profanazione...
Nevica sulla terra: il vento freddo
dice
che Persefone fa sesso negli inferi.
A differenza di noi, lei non sa
che cosa sia l'inverno, soltanto che
è lei a causarlo.
Giace nel letto di Ade.
Che cos'ha in mente?
Ha paura? Qualcosa
ha rimosso l'idea
della mente?
Sa che la terra è governata
da sua madre, almeno questo
è sicuro. Sa anche
che non è più ciò che si chiama
una ragazza. Per quanto riguarda
la carcerazione, crede
di essere stata prigioniera sin da
quando è una figlia.
I terribili ricongiungimenti che la
aspettano
occuperanno il resto della sua vita.
Quando la passione per l'espiazione
è cronica, feroce, non scegli
il modo in cui vivi. Non vivi;
non sei autorizzata a morire.
Vaghi fra la terra e la morte
che alla fine sembrano
ugualmente strane. Gli studiosi ci
dicono
che non ha senso sapere che cosa vuoi
quando le forze che ti si contendono
possono ucciderti.
Bianco d'oblio,
bianco di sicurezza...
Dicono
ci sia una frattura nell'anima umana
che non fu costruita per appartenere
del tutto alla vita. La terra
ci chiede di negare la frattura, una
minaccia
mascherata da consiglio:
come abbiamo visto
nella storia di Persefone
che andrebbe letta
come una contesa tra madre e amante:
la figlia non è che carne.
Quando la morte la affronta, non ha mai
visto
il prato senza margherite.
All'improvviso non sta più
cantando il suo canto virginale
sulla bellezza e fecondità
di sua madre. Dove
c'è la frattura, lì è la pausa.
Canto della terra
canto della visione mitica di vita
eterna...
La mia anima
distrutta dallo sforzo
di cercare di appartenere alla terra...
Che cosa fareste voi,
quando
è il vostro turno in campo con il dio?
(Testo
originale: https://poets.org/poem/persephone-wanderer)
*
* *
MIGRAZIONI NOTTURNE
È
questo il tempo in cui di nuovo vedi
le
bacche rosse del sorbo
e nel
cielo scuro
le
migrazioni notturne degli uccelli.
Mi
addolora pensare
che i
morti non le vedranno:
le cose
in cui confidiamo,
svaniscono.
E
allora come farà l'anima a consolarsi?
Forse,
mi dico, di questi piaceri
non
avrà più bisogno,
forse già il non essere è abbastanza,
per
quanto difficile sia immaginarlo.
(Testo
originale: https://poets.org/poem/night-migrations)
*
* *
(da: “Poetry”,
gennaio 2013)
PAESAGGIO ABORIGENO
Stai
calpestando tuo padre, disse mia madre,
e in
effetti ero in piedi nel centro esatto
di un
manto erboso, talmente curato da poter essere
la
tomba di mio padre, anche se nessuna lapide lo diceva.
Stai
calpestando tuo padre, ripetè,
stavolta
più forte, e io cominciai a trovarlo strano
perché
era morta anche lei; l'aveva ammesso persino il dottore.
Mi
spostai un po' più in là, dove
finiva
mio padre e cominciava mia madre.
Il
cimitero era silenzioso. Il vento soffiava tra gli alberi;
sentivo,
debolissimo, un pianto parecchie file più in là,
e,
ancora oltre, un cane ululare.
Dopo un po' questi suoni si
placarono. Mi resi conto
che non ricordavo di essere
stata portata lì,
in quello che ora pareva un
cimitero, ma poteva anche essere stato
un cimitero solo nella mia
mente; forse era un parco, o altrimenti,
un giardino o un pergolato,
con profumo, me ne accorgevo adesso, di rose...
La douceur de vivre
riempiva l'aria, la dolcezza di vivere,
come si
suol dire. A un certo punto,
mi
accorsi di essere sola.
Dov'erano andati gli altri,
i cugini e le sorelle,
Caitlin e Abigail?
Adesso la luce stava
svanendo. Dov'era l'automobile
che ci aspettava per
portarci a casa?
Allora cominciai a cercare
un'alternativa. Sentivo
crescere in me l'impazienza,
avvicinarsi, direi, l'ansia.
Infine, a grande distanza,
scorsi un trenino,
si fermò, così pareva,
dietro il fogliame, il controllore
si attardava sulla soglia, a
fumare una sigaretta.
Non dimenticatemi, gridai, e
adesso correvo
su molti lotti di terra,
molti padri e madri...
Non dimenticatemi, gridai,
quando infine lo raggiunsi.
Signora, disse, indicando i
binari,
lei di certo non ha capito
che questa è la fine, i binari non proseguono.
Erano parole aspre, le sue,
eppure gli occhi erano gentili;
questo mi incoraggiò a
perorare più fortemente la mia causa.
Ma tornano indietro, dissi,
e rimarcai
la loro robustezza, come se
ancora fossero destinati a molti ritorni.
Lei lo sa, disse, che il
nostro è un lavoro difficile: affrontiamo
molto dolore e disappunto.
Mi fissava con crescente
franchezza.
Anch'io ero come lei,
aggiunse, innamorato dell'agitazione.
Ora gli parlavo come a un
vecchio amico:
E tu allora, dissi, perché
era libero di andarsene,
tu non desideri tornare a
casa,
rivedere la città?
Questa è casa mia, disse.
In
città – è in città che scompaio.
(Testo
originale:
https://www.poetryfoundation.org/poetrymagazine/poems/56626/aboriginal-landscape)