Più passa il
tempo, più il mondo mi pare fatto di sabbia. Uno sfarinio di fatti
atomici, particellari, che non trovano una forma stabile. O, se la
trovano, è un'architettura filiforme, asimmetrica, simile a quelle
che costruivo sulla spiaggia facendo colare la sabbia umida dalla
mano a imbuto, e che duravano finche il sole non le seccava
restituendole alla fluidità.
Penso agli insetti
– vespe, mosche, scarabei – che mi divertivo a seppellire sotto
una manciata di sabbia, per aspettare che riemergessero, lottando
contro la materia cedevole che li circondava. Oppure ai formicaleoni
(da quanto tempo non ne vedo uno?) acquattati in fondo alle loro
microscopiche doline di sabbia, in attesa che la formica vi
scivolasse dentro, precipitando verso le mandibole acuminate pronte a
squarciarla.
Come la sabbia, il
mondo mi appare il risultato di un'erosione lentissima, che ha
disgregato le rocce, ha avuto la meglio sulla compattezza, l'ha
sbriciolata fino a una dimensione granulare, un brulicare
incalcolabile, uno smottamento senza fine.
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