Giorgio Falco, Ipotesi di una sconfitta, Einaudi, 2017 (384 pp., €19,50)
Francesco Dezio, La gente per bene, Terra Rossa, 2018 (210 pp., €15,00)
Apparentemente simili, in realtà diversissimi questi due libri.
Simili, perché simile è il tema: il lavoro, quello precario, polverizzato, risorseumanizzato dei giorni nostri. E simile anche il modo di svolgerlo, narrando in prima persona una sequela di lavori svolti dall'autore. Diversissimi invece gli ambienti, gli stili, i punti di vista.
Ipotesi di una sconfitta si apre con un lungo capitolo dedicato al padre del protagonista, siciliano emigrato a Milano (e quindi milanese al quadrato), impiegato per quarant'anni nell'azienda municipale dei trasporti (il vecchio, mitologico posto fisso), infine morto di tumore, proprio in coincidenza con la dismissione della stessa azienda.
Segue il resoconto dei tanti mestieri, più o meno improbabili, svolti da Falco: addetto al confezionamento di spillette con volti celebri, da Bruce Springsteen a Papa Woityla a Gesù (ma Gesù gratis, perché “con
lui si va in perdita”); tabulatore di dati sui supermercati per conto di una rivista; venditore porta-a-porta di abbonamenti per la consegna domiciliare di un quotidiano; commesso in un negozio di abbigliamento; piazzista di scope in saggina; magazziniere; allenatore di basket; affissore di manifesti; fino alla discesa agli inferi: impiegato per un'azienda di telefonia mobile.
L'itinerario è una catabasi verso un lavoro sempre più alienante, disumanizzante, psicotizzante. L'ambiente è quello delle periferie milanesi, o del Veneto, o (per qualche pagina) delle borgate romane ai confini del Grande Raccordo Anulare: un panorama sempre più devastato, sfregiato, cementificato, invivibile. Un movimento discendente che non si arresta nemmeno di fronte all'ultima svolta: la scelta di dedicarsi alla scrittura e guadagnarsi da vivere con le scommesse calcistiche.
Tutto, in realtà, si svolge all'ombra di un tramonto: quello del Novecento, rappresentato dalla figura del padre. Il secolo è morto, insieme a tutti i suoi miti, e Giorgio Falco (classe 1967) appartiene alla generazione che ha vissuto quell'agonia.
Prendo in prestito le parole di Daniele Giglioli (da Le parole e le cose):
C’è un [...] mito a cui il secolo scorso ha sacrificato. [...] Era il mito secondo cui la vera vita è appunto l’arte, la letteratura, redenzione di quella che ci sfugge nello scialo dei giorni. [...] Quel mito tenta forse anche Falco, che però non gli cede. Il lettore non troverà da nessuna parte la volgarità terra terra del “ce l’ho fatta”, né quella tanto più volgare del “che importa, in fondo, se tutto ciò ha fatto nascere una scrittura?” Ci sono scrittori per i quali, di qualsiasi cosa parlino, fa premio comunque su tutto il ribaldo, avventuroso, amorale piacere di esprimersi. Falco è troppo onesto per questo. Tra cosa e stile la fusione è senza resti. La bellezza, la verità di questo libro, il lettore deve guadagnarsela a sue spese. Dentro, ma anche fuori dal libro.
Non c'è traccia di autofiction in “Ipotesi di una sconfitta”, ma una sincerità e un realismo senza remore, serviti da uno stile compatto, implacabile.
Apparentemente simile, dicevo, La gente per bene. Anche qui abbiamo uno scrittore nato nell'ultimo scorcio del Novecento (1970), che fa i conti con un lavoro trasformato in sfruttamento senza più alcuna possibilità di riscatto.
Lo scenario, stavolta, è il Sud: in particolare, il Sud della Murgia barese, terra di capannoni, piccole ditte a gestione familiare, discariche clandestine, palazzinari, padroni arricchitisi sullo sfruttamento spregiudicato degli operai. E anche Dezio racconta la propria odissea nel lavoro: il diploma all'Industriale, le esperienze come grafico addetto ad Autocad e SolidWorks, l'economia rampante dei divanifici Natuzzi che, negli anni Ottanta e Novanta, sembrava aver trasformato quel lembo di Puglia nella Svizzera del Meridione, il fallimento non solo personale, ma di un'intera società.
Tuttavia, il libro è quanto di più diverso si possa concepire, rispetto a quello di Giorgio Falco. Perché Dezio sceglie una forma ibrida, volutamente disomogenea, anzi trae la propria forza proprio dalle fratture nel tessuto stilistico e narrativo. E così, ogni capitolo sembra prendere una direzione diversa dal precedente, rendendo La gente per bene un oggetto letterario di difficile collocazione: autobiografia? autofiction? romanzo d'inchiesta e di denuncia? Lo stile incorpora il parlato, il dialetto, ma anche il linguaggio burocratico, le copie dei CV e delle lettere di licenziamento.
Alla fine, una vaga speranza sembra intravvedersi, ma sta solo nella fuga da un Sud che, dopo sessant'anni, ancora offre ai suoi figli l'unica strada dell'emigrazione.
Eppure, lo si sarà capito, qualcosa di simile i due libri ce l'hanno: dipingono in maniera spietata lo sfacelo ineluttabile del mondo occidentale contemporaneo. In questo, i capannoni della Brianza somigliano tragicamente a quelli delle Murge.
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