Fu a Roma, una volta, in seguito ai
regali di Natale, che ebbi forse la più acuta rivelazione di che
cosa significasse essere padre.
Un regalo, mi pare un completo
armamento, un out-fit da cow-boy con pistole, cartucce, cinturone,
fondine, ginocchiere, ecc. non era stato gradito da uno dei miei
figli: non era, sembra, quella che lui si aspettava. Sotto perentoria
intimazione di mia moglie, uscii col bambino, noi due soli, per
comprare un altro, diverso, più costoso out-fit. Girammo vari
negozi. Niente, non c'era mai l'optimum, che lui aveva in mente.
Infine, lo trovammo: ma ad un prezzo talmente spropositato che dissi
no, e prendendo per mano mio figlio scappai fuori nella strada.
Cominciammo a camminare in silenzio,
tenevo la sua piccola mano nella mia. Era il pomeriggio, via
Boncompagni, un bel sole d'inverno. Mio figlio, naturalmente, era
imbronciato. Io tacevo: maturavo tra me un compromesso: tornare in
uno dei negozi di prima, e acquistare qualcosa che, a mio giudizio,
assomigliava abbastanza all'optimum e costava decisamente meno.
Cominciai, piano piano, a ragionarlo: l'altro cinturone era identico,
le fodere delle pistole addirittura più belle. Lui a ribattere che
erano diversissime le pistole stesse: quelle che volevo comprare io,
sbagliate, sbagliate. A poco a poco, nella discussione, ci
accalorammo: gridava lui, gridavo io, insomma litigavamo. Finché,
dimenticandomi improvvisamente di mia moglie, persi la pazienza, cosa
che con i miei bambini non mi era mai capitata e non mi capitò più
neanche dopo: dissi, arrabbiato ma serio, che quelle pistole col
resto costavano troppo, che noi spendevamo sempre troppi soldi per
tutto, e che basta, insomma, non le avrei comprate.
Accadde allora qualcosa che non avevo
previsto. Mi aspettavo che lui continuasse in crescendo il suo
capriccio. Invece, tacque di botto. Vidi che era impallidito: capii
che, per la prima volta nella nostra vita, lo avevo spaventato. Stava
per piangere: ingollò le lacrime e mormorò con un filo di voce:
«Va bene, papà. Hai ragione. Faccio quello che vuoi tu.»
«Va bene, papà. Hai ragione. Faccio quello che vuoi tu.»
Ah,
quanto avrei dato, quanto darei ancor oggi perché lui avesse
continuato a ribellarsi. Certo, senza accorgermene, lo avevo
spaventato. Volevo che lui cedesse, non c'è dubbio: ma arei voluto
che cedesse in un altro modo: convinto del mio ragionamento, non
atterrito, forse, da un mio urlaccio o da una qualche parola più
dura che mi era sfuggita. La debolezza di tutto se stesso, con cui si
era schiantato, mi parve, non so perché, non solo di bambino, ma di
uomo: la sua mitezza, la sua remissività improvvisa mi ferirono come
un rimorso da cui non avreimai più potuto liberarmi. Mio figlio mi
sembrò un essere inerme per sempre, una vittima predestinata. E io,
io, involontario carnefice, provavo ormai per lui una pietà infinita
e impotente. Ah, ma allora è la vita, la vita stessa, che in ogni
caso finisce con la paura, la rinuncia, l'umiliazione!
Lì
per lì, oltre la violenza di quest'impressione, e forse per
attutirne l'urto, riflettei fulmineamente: se è così, con quale
scopo negare, negarsi una gioia finché la possiamo dare e avere? Con
lo scopo, forse, come sostengono i pedagoghi, di allenare i bambini
alle future delusioni? Se le delusioni ci saranno ad ogni modo, a che
vale anticiparle? Vale a renderle meno cocenti? Se davvero è così
ristretto il campo in cui possiamo operare, se le varianti che
riusciamo ad imporre al destino sono così minime, merita la pena che
tanto ci industriamo a costruirle?
Risultato:
mi regolai esattamente come si sarebbe regolata mia moglie senza
nessuna delle mie riflessioni. Tornammo di corsa all'ultimo negozio,
comprai l'out-fit che mio figlio voleva. Fu felice ma la sua felicità
durò così poco, mentre dura ancora, in me, il ricordo del suo
piccolo volto impaurito e remissivo, quella sua espressione di resa
definitiva e inconsolabile: dunque non avrò le mie pistole, questa è
la verità assurda e atroce, questa è la vita.
(Mario
Soldati, “Lo smeraldo”, 1974)
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