Costui fu chiamato una bella mattina con imponente solennità dinanzi a suo padre; il quale per quanto ostentasse l’autorevole cipiglio del signore assoluto aveva in fondo il fare vacillante e contrito d’un generale che capitola.
– Figliuol mio – cominciò egli a dire – la professione delle armi è una nobile professione.
– Lo credo – rispose il giovinetto con una cera da santo un po’ intorbidata dall’occhiata furbesca volta di soppiatto alla madre.
– Tu porti un nome superbo – riprese sospirando il vecchio Conte. – Orlando, come devi aver appreso dal poema dell’Ariosto che ti ho tanto raccomandato di studiare...
– Io leggo l’Uffizio della Madonna – disse umilmente il fanciullo.
– Va benissimo; – soggiunse il vecchio tirandosi la parrucca sulla fronte – ma anche l’Ariosto è degno di esser letto. Orlando fu un gran paladino che liberò daiMori il bel regno di Francia. E di piú se avessi scorso la Gerusalemme liberata sapresti che non coll’Uffizio dellaMadonna ma con grandi fendenti di spada e spuntonate di lancia il buon Goffredo tolse dalle mani dei Saracini il sepolcro di Cristo.
– Sia ringraziato Iddio! – sclamò il giovinetto. – Ora non resta nulla a che fare.
– Come non resta nulla? – gli diede sulla voce il vecchio. – Sappi, o disgraziato, che gli infedeli riconquistarono la Terra Santa e che ora che parliamo un bascià del Sultano governa Gerusalemme, vergogna di tutta Cristianità.
– Pregherò il Signore che cessi una tanta vergogna –soggiunse Orlando.
– Che pregare! Fare, fare bisogna! – gridò il vecchio Conte.
– Scusate – s’intromise a dirgli la Contessa. – Non vorrete già pretendere che qui il nostro bimbo faccia da sé solo una crociata.
– Eh via! non è piú bimbo! – rispose il Conte. – Compie oggi appunto i dodici anni!
– Compiesse anche il centesimo – soggiunse la signora – certo non potrebbe mettersi in capo di conquistare la Palestina.
– Non la conquisteremo piú finché si avvezza la prole a donneggiare col rosario! – sclamò il vecchio pavonazzo dalla bile.
– Sí! ci voleva anche questa bestemmia! – riprese pazientemente la Contessa. – Poiché il Signore ci ha dato un figliuolo che ha idea di far bene mostriamocene grati collo sconoscere i suoi doni!
– Bei doni, bei doni! – mormorava il Conte. – Un santoccio leccone!... un mezzo volpatto e mezzo coniglio!
– Infine egli non ha detto questa gran bestialità; –soggiunse la signora – ha detto di pregar Iddio perché egli consenta che i luoghi della sua passione e della sua morte tornino alle mani dei cristiani. È il miglior partito che ci rimanga ora che i cristiani son occupati a sgozzarsi fra loro, e che la professione del soldato è ridotta una scuola di fratricidii e di carneficine.
– Corpo della Serenissima! – gridò il Conte. – Se Sparta avesse avuto madri simili a voi, Serse passava leTermopili con trecento boccali di vino!
– S’anco la cosa andava a questo modo non ne avrei gran rammarico – riprese la Contessa.
– Come? – urlò il vecchio signore – arrivate persino anegare l’eroismo di Leonida e la virtù delle madri spartane?
– Via! stiamo nel seminato! – disse chetamente ladonna – io conosco assai poco Leonida e le madri spartane benché me le venghiate nominando troppo sovente; e tuttavia voglio credere ad occhi chiusi che le fossero la gran brava gente. Ma ricordatevi che abbiamo chiamato dinanzi a noi nostro figlio Orlando per illuminarci sulla sua vera vocazione, e non per litigare in sua presenza sopra queste rancide fole.
– Donne, donne!... nate per educar i polli – borbottava il Conte.
– Marito mio! sono una Badoera! – disse drizzandosi la Contessa. – Mi consentirete, spero, che i polli nella nostra famiglia non sono piú numerosi che nella vostra icapponi.
Orlando che da un buon tratto si teneva i fianchi scoppiò in una risata al bel complimento della signora madre; ma si ricompose come un pulcino bagnato all’occhiata severa ch’ella gli volse.
– Vedete? – continuò parlando al marito – finiremo col perdere la capra ed i cavoli. Mettete un po’ da banda i vostri capricci, giacché Iddio vi fa capire che non gli accomodano per nulla; e interrogate invece, come è dicevole a un buon padre di famiglia, l’animo di questo fanciullo.
Il vecchio impenitente si morsicò le labbra e si volse al figliuolo con un visaccio sí brutto ch’egli se ne sgomentí e corse a rifugiarsi col capo sotto il grembiale materno.– Dunque – cominciò a dire il Conte senza guardarlo, perché guardandolo si sentiva rigonfiare la bile.
– Dunque, figliuol mio, voi non volete fare la vostra comparsa sopra un bel cavallo bardato d’oro e di velluto rosso, con una lunga spada fiammeggiante in mano, e dinanzi a sei reggimenti di Schiavoni alti quattro braccia l’uno, i quali per correre a farsi ammazzare dalle scimitarre deiTurchi non aspetteranno altro che un cenno della vostra bocca?
– Voglio cantar messa io! – piagnucolava il fanciullo di sotto al grembiule della Contessa. Il Conte, udendo quella voce piagnucolosa soffocata dalle pieghe delle vesti donde usciva, si voltò a vedere cos’era; e mirando il figliuol suo intanato colla testa come un fagiano, non ebbe piú ritegno alla stizza, e diventò rosso piú ancor di vergogna che di collera.
– Va’ dunque in seminario, bastardo! – gridò egli fuggendo fuori della stanza.
Il cattivello si mise allora a singhiozzare e a strapparsii capelli e a dar del capo nelle gambe della madre, sicuro di non farsi male. Ma costei se lo tolse fra le braccia e lo consolava con bella maniera dicendogli:– Sí, viscere mie; non temere; ti faremo prete; canterai messa. Oh non sei fatto tu, no, per versare il sangue de’ tuoi fratelli come Caino!...
– Ih! ih! ih! voglio cantar in coro! voglio farmi santo!– strepitava Orlando.
– Sí... canterai in coro, ti faremo canonico, avrai il sarrocchino, e le belle calze rosse; non piangere tesoro mio. Sono tribolazioni queste che bisogna offerirle al Signore per farsi sempre piú degni di lui – gli andava dicendo la mamma.
Il fanciullo si consolò a queste promesse; ed ecco perché il conte Orlando, in onta al nome di battesimo e a dispetto della contrarietà paterna, era divenuto monsignor Orlando.
– Figliuol mio – cominciò egli a dire – la professione delle armi è una nobile professione.
– Lo credo – rispose il giovinetto con una cera da santo un po’ intorbidata dall’occhiata furbesca volta di soppiatto alla madre.
– Tu porti un nome superbo – riprese sospirando il vecchio Conte. – Orlando, come devi aver appreso dal poema dell’Ariosto che ti ho tanto raccomandato di studiare...
– Io leggo l’Uffizio della Madonna – disse umilmente il fanciullo.
– Va benissimo; – soggiunse il vecchio tirandosi la parrucca sulla fronte – ma anche l’Ariosto è degno di esser letto. Orlando fu un gran paladino che liberò daiMori il bel regno di Francia. E di piú se avessi scorso la Gerusalemme liberata sapresti che non coll’Uffizio dellaMadonna ma con grandi fendenti di spada e spuntonate di lancia il buon Goffredo tolse dalle mani dei Saracini il sepolcro di Cristo.
– Sia ringraziato Iddio! – sclamò il giovinetto. – Ora non resta nulla a che fare.
– Come non resta nulla? – gli diede sulla voce il vecchio. – Sappi, o disgraziato, che gli infedeli riconquistarono la Terra Santa e che ora che parliamo un bascià del Sultano governa Gerusalemme, vergogna di tutta Cristianità.
– Pregherò il Signore che cessi una tanta vergogna –soggiunse Orlando.
– Che pregare! Fare, fare bisogna! – gridò il vecchio Conte.
– Scusate – s’intromise a dirgli la Contessa. – Non vorrete già pretendere che qui il nostro bimbo faccia da sé solo una crociata.
– Eh via! non è piú bimbo! – rispose il Conte. – Compie oggi appunto i dodici anni!
– Compiesse anche il centesimo – soggiunse la signora – certo non potrebbe mettersi in capo di conquistare la Palestina.
– Non la conquisteremo piú finché si avvezza la prole a donneggiare col rosario! – sclamò il vecchio pavonazzo dalla bile.
– Sí! ci voleva anche questa bestemmia! – riprese pazientemente la Contessa. – Poiché il Signore ci ha dato un figliuolo che ha idea di far bene mostriamocene grati collo sconoscere i suoi doni!
– Bei doni, bei doni! – mormorava il Conte. – Un santoccio leccone!... un mezzo volpatto e mezzo coniglio!
– Infine egli non ha detto questa gran bestialità; –soggiunse la signora – ha detto di pregar Iddio perché egli consenta che i luoghi della sua passione e della sua morte tornino alle mani dei cristiani. È il miglior partito che ci rimanga ora che i cristiani son occupati a sgozzarsi fra loro, e che la professione del soldato è ridotta una scuola di fratricidii e di carneficine.
– Corpo della Serenissima! – gridò il Conte. – Se Sparta avesse avuto madri simili a voi, Serse passava leTermopili con trecento boccali di vino!
– S’anco la cosa andava a questo modo non ne avrei gran rammarico – riprese la Contessa.
– Come? – urlò il vecchio signore – arrivate persino anegare l’eroismo di Leonida e la virtù delle madri spartane?
– Via! stiamo nel seminato! – disse chetamente ladonna – io conosco assai poco Leonida e le madri spartane benché me le venghiate nominando troppo sovente; e tuttavia voglio credere ad occhi chiusi che le fossero la gran brava gente. Ma ricordatevi che abbiamo chiamato dinanzi a noi nostro figlio Orlando per illuminarci sulla sua vera vocazione, e non per litigare in sua presenza sopra queste rancide fole.
– Donne, donne!... nate per educar i polli – borbottava il Conte.
– Marito mio! sono una Badoera! – disse drizzandosi la Contessa. – Mi consentirete, spero, che i polli nella nostra famiglia non sono piú numerosi che nella vostra icapponi.
Orlando che da un buon tratto si teneva i fianchi scoppiò in una risata al bel complimento della signora madre; ma si ricompose come un pulcino bagnato all’occhiata severa ch’ella gli volse.
– Vedete? – continuò parlando al marito – finiremo col perdere la capra ed i cavoli. Mettete un po’ da banda i vostri capricci, giacché Iddio vi fa capire che non gli accomodano per nulla; e interrogate invece, come è dicevole a un buon padre di famiglia, l’animo di questo fanciullo.
Il vecchio impenitente si morsicò le labbra e si volse al figliuolo con un visaccio sí brutto ch’egli se ne sgomentí e corse a rifugiarsi col capo sotto il grembiale materno.– Dunque – cominciò a dire il Conte senza guardarlo, perché guardandolo si sentiva rigonfiare la bile.
– Dunque, figliuol mio, voi non volete fare la vostra comparsa sopra un bel cavallo bardato d’oro e di velluto rosso, con una lunga spada fiammeggiante in mano, e dinanzi a sei reggimenti di Schiavoni alti quattro braccia l’uno, i quali per correre a farsi ammazzare dalle scimitarre deiTurchi non aspetteranno altro che un cenno della vostra bocca?
– Voglio cantar messa io! – piagnucolava il fanciullo di sotto al grembiule della Contessa. Il Conte, udendo quella voce piagnucolosa soffocata dalle pieghe delle vesti donde usciva, si voltò a vedere cos’era; e mirando il figliuol suo intanato colla testa come un fagiano, non ebbe piú ritegno alla stizza, e diventò rosso piú ancor di vergogna che di collera.
– Va’ dunque in seminario, bastardo! – gridò egli fuggendo fuori della stanza.
Il cattivello si mise allora a singhiozzare e a strapparsii capelli e a dar del capo nelle gambe della madre, sicuro di non farsi male. Ma costei se lo tolse fra le braccia e lo consolava con bella maniera dicendogli:– Sí, viscere mie; non temere; ti faremo prete; canterai messa. Oh non sei fatto tu, no, per versare il sangue de’ tuoi fratelli come Caino!...
– Ih! ih! ih! voglio cantar in coro! voglio farmi santo!– strepitava Orlando.
– Sí... canterai in coro, ti faremo canonico, avrai il sarrocchino, e le belle calze rosse; non piangere tesoro mio. Sono tribolazioni queste che bisogna offerirle al Signore per farsi sempre piú degni di lui – gli andava dicendo la mamma.
Il fanciullo si consolò a queste promesse; ed ecco perché il conte Orlando, in onta al nome di battesimo e a dispetto della contrarietà paterna, era divenuto monsignor Orlando.
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