venerdì 30 settembre 2016

il corpo e la casa_quattro poesie di Warsan Shire

Warsan Shire è nata nel 1988 in Kenya da genitori somali, emigrati in Gran Bretagna l'anno successivo. Ha pubblicato due libri di poesie: "Teaching My Mother How to Give Birth" (flipped eye, 2011) e "Her Blue Body" (flipped eye, 2015), ma è salita alla ribalta quando, quest'anno, la cantante Beyoncé l'ha chiamata a collaborare per i testi del suo disco "Lemonade". 
Nel 2013 ha ricevuto l'African Poetry Prize dalla Brunel University e nello stesso anno è stata nominata Young Poet Laureate di Londra. Nel 2014, è stata "poet in residence" presso l'università australiana del Queensland.
Quelle qui sotto sono traduzioni mie di testi trovati online.

* * *

All'indietro
                per Saaid Shire

La poesia può cominciare con lui che cammina all'indietro in una stanza.
Si toglie il giubbotto e si siede per il resto della sua vita;
è così che riportiamo indietro papà.
Posso farmi scorrere il sangue all'indietro su per il naso, far correre le formiche in un buco.
Diventiamo più piccoli nel corpo, i miei seni scompaiono,
le tue guance si fanno più soffici, i denti riaffondano nelle gengive.
Posso far sì che siamo amati, basta dire la parola.
Dar loro monconi al posto delle mani se anche una sola volta ci hanno toccato senza permesso,
posso scrivere la poesia e farla sparire.
Il patrigno risputa il liquore nel bicchiere,
il corpo della mamma rotola su per le scale, le ossa tornano al loro posto,
forse terrà il bambino.
Forse va tutto bene, ragazzi?
Riscriverò per intero questa vita e stavolta ci sarà tanto amore,
non riuscirai a vederci attraverso.

Non riuscirai a vederci attraverso,
riscriverò per intero questa vita e stavolta ci sarà tanto amore.
Forse va tutto bene ragazzi,
forse terrà il bambino.
Il corpo della mamma rotola su per le scale, le ossa tornano al loro posto,
il patrigno risputa il liquore nel bicchiere.
Posso scrivere la poesia e farla sparire,
dar loro monconi al posto delle mani se anche una sola volta ci hanno toccato senza permesso,
posso far sì che siamo amati, basta dire la parola.
Le tue guance si fanno più soffici, i denti riaffondano nelle gengive
diventiamo più piccoli nel corpo, i miei seni scompaiono.
Posso farmi scorrere il sangue all'indietro su per il naso, far correre le formiche in un buco,
è così che riportiamo indietro papà.
Si toglie il giubbotto e si siede per il resto della sua vita.
La poesia può cominciare con lui che cammina all'indietro in una stanza.

* * *

La casa

i

Mamma dice che ci sono stanze chiuse in ogni donna; cucine di desiderio,
camere da letto di dolore, stanze da bagno d'apatia.
A volte arrivano gli uomini, con le chiavi,
e a volte arrivano gli uomini, con i martelli.

ii

Nin soo joog laga waayo, soo jiifso aa laga helaa,
ho detto Fermo, ho detto No e non mi ha ascoltata.

iii

Forse lei ha un piano, forse lo riporterà indietro
solo perché lui si svegli dopo ore in una vasca piena di ghiaccio,
con la bocca secca, a guardarsi, laggiù, la sua nuova, linda chirurgia.

iv

Indico il mio corpo e dico Oh questa cosa vecchia? No, me la sono solo buttata addosso.

v

Ma vuoi mangiare quella roba? Dico a mia madre, indicando mio padre che giace sul tavolo della sala da pranzo, una mela rossa infilata in bocca.

vi

Più è grande il mio corpo, più stanze chiuse contiene, più arrivano uomini con le chiavi. Anwar non ce l'ha fatta a entrare del tutto, ancora penso a che cosa avrebbe potuto aprire dentro di me. Basil è venuto e ha esitato alla porta per tre anni. Johnny dagli occhi azzurri è arrivato con una borsa d'attrezzi che aveva usato su altre donne: una forcina, una bottiglia di candeggina, un coltello a serramanico e un barattolo di vaselina. Yusuf ha invocato il nome di Dio attraverso la serratura e nessuno ha risposto. Alcuni hanno implorato, alcuni si sono arrampicati sui lati del mio corpo in cerca di una finestra, alcuni hanno detto che erano per strada e poi non sono venuti.

vii

Mostraci sulla bambola dove sei stata toccata, hanno detto.
Ho detto, Non somiglio a una bambola, somiglio a una casa.
Hanno detto Mostraci la casa.

Così: due dita nel barattolo di marmellata
così: un gomito nell'acqua del bagno
così: una mano nel cassetto.

viii

Dovrei raccontarvi del mio primo amore che trovò una botola sotto il mio seno sinistro nove anni fa, ci cadde dentro e da allora è rimasto lì. Ogni tanto sento qualcosa che mi striscia su per la coscia. Dovrebbe farsi vivo, probabilmente lo farei uscire. Spero non sia inciampato negli altri, i ragazzi scomparsi che venivano da piccole città, con madri gradevoli, che hanno fatto brutte cose e si sono smarriti nel labirinto dei miei capelli. Li tratto abbastanza bene, una fetta di pane, se sono fortunati un pezzo di frutta. Tranne Johnny con gli occhi azzurri, che ha raccolto i miei riccioli ed è strisciato dentro. Che sciocco, incatenato nella cantina delle mie paure, suono musica per farlo affogare.

ix

Toc toc.
Chi è?
Nessuno.

x

Alle feste indico il mio corpo e dico È qui che l'amore viene a morire. Benvenuti, entrate, fate come se foste a casa vostra. Tutti ridono, pensano che stia scherzando.

* * *

Brutta

Tua figlia è brutta.
Conosce intimamente la perdita,
si porta nella pancia città intere.

Da bambina, i parenti non la tenevano.
Era schegge di legno e acqua di mare.
Dicevano che faceva venire in mente la guerra.

Al suo quindicesimo compleanno le hai insegnato
come legarsi i capelli in forma di corda
e profumarli nei fumi di olibano.

Le hai fatto fare i gargarismi con acqua di rose
e mentre tossiva, hai detto
le ragazze macaanto come te non devono odorare
di solitudine o di vuoto.

Tu sei sua madre.
Perché non l'hai avvisata,
tenuta come una barca marcita
non le hai detto che gli uomini non l'ameranno
se è coperta di continenti,
se i suoi denti sono piccole colonie,
se il suo stomaco è un'isola,
se le sue cosce sono confini?

Quale uomo desidera sdraiarsi
e guardare il mondo che brucia
in camera da letto?

La faccia di tua figlia è una piccola sommossa,
le sue mani sono una guerra civile,
un campo di rifugiati dietro ciascun orecchio,
il corpo inquinato da cose orrende

ma Santo Cielo,
come lo indossa bene
il mondo.

* * *

Per le donne difficili da amare

sei un cavallo che corre da solo
e lui cerca di domarti
ti paragona a un'autostrada impossibile
a una casa in fiamme
dice che lo accechi
che non può lasciarti
dimenticarti
volere altro se non te
gli dai le vertigini, sei insopportabile
ogni donna prima o dopo di te
è inzuppata del tuo nome
gli riempi la bocca
i denti gli dolgono con memorie di sapori
il suo corpo una lunga ombra in cerca del tuo
ma tu sei sempre troppo intensa
spaventosa nel modo in cui lo desideri
spudorata e sacrificale
ti dice che nessun uomo può essere all'altezza di quello
che abita nella tua testa
e tu hai cercato di cambiare vero?
sei stata più a bocca chiusa
hai cercato di essere più dolce
più carina
meno irascibile, meno sveglia
ma anche nel sonno sentivi
che nei suoi sogni si allontanava da te
e che cosa volevi fare amore
aprirgli la testa?
non puoi trasformare un essere umano in casa
avrebbero dovuto averti già avvertito
e se vuole andarsene
lascialo andare
sei spaventosa
e strana e bella
qualcosa che non tutti sanno come amare.

giovedì 29 settembre 2016

vita da editore

(per Antonio Lillo)

"Ecco il libro: è bellissimo, strafico",
e me lo porge. "È il mio."
"Lo leggo e poi ti dico".
"Non serve, dai: te l'ho già letto io".

mercoledì 28 settembre 2016

colloqui - 4

Sono pochi gli indizi: il colpo di glottide
la piega delle labbra
il fianco della mano che sfiora il calore
nessuno potrebbe riconoscerti
così lontana da stessa
solo gli occhi ti tradiscono
la luce nera che non ti abbandona
mentre ruoti lo sguardo per seguire
la curva il dolce affondo delle sillabe.

martedì 27 settembre 2016

adolescente

Su te, vergine adolescente,
sta come un'ombra sacra.
Nulla è più misterioso
e adorabile e proprio
della tua carne spogliata.
Ma ti recludi nell'attenta veste
e abiti lontano
con la tua grazia
dove non sai chi ti raggiungerà.
Certo non io. Se ti veggo passare
a tanta regale distanza,
con la chioma sciolta
e tutta la persona astata,
la vertigine mi si porta via.
Sei l'imporosa e liscia creatura
cui preme nel suo respiro
l'oscuro gaudio della carne che appena
sopporta la sua pienezza.
Nel sangue, che ha diffusioni
di fiamma sulla tua faccia,
il cosmo fa le sue risa
come nell'occhio nero della rondine.
La tua pupilla è bruciata
dal sole che dentro vi sta.
La tua bocca è serrata.
Non sanno le mani tue bianche
il sudore umiliante dei contatti.
E penso come il tuo corpo
difficoltoso e vago
fa disperare l'amore
nel cuor dell'uomo!
 
Pure qualcuno ti disfiorerà,
bocca di sorgiva.
Qualcuno che non lo saprà,
un pescatore di spugne,
avrà questa perla rara.
Gli sarà grazia e fortuna
il non averti cercata
e non sapere chi sei
e non poterti godere
con la sottile coscienza
che offende il geloso Iddio.
Oh sì, l'animale sarà
abbastanza ignaro
per non morire prima di toccarti.
E tutto è così.
Tu anche non sai chi sei.
E prendere ti lascerai,
ma per vedere come il gioco è fatto,
per ridere un poco insieme.
Come fiamma si perde nella luce,
al tocco della realtà
i misteri che tu prometti
si disciolgono in nulla.
Inconsumata passerà
tanta gioia!
Tu ti darai, tu ti perderai,
per il capriccio che non indovina
mai, col primo che ti piacerà.
Ama il tempo lo scherzo
che lo seconda,
non il cauto volere che indugia.
Così la fanciullezza
fa ruzzolare il mondo
e il saggio non è che un fanciullo
che si duole di essere cresciuto.
 
(Vincenzo Cardarelli)

lunedì 26 settembre 2016

Puma concolor

I carnivori tendono all'immobilità, gli erbivori al moto? Oppure: le bestie si muovono in proporzione inversa alle dimensioni?
Ai due estremi: le cavie peruviane, in agitazione perpetua nel loro minuscolo universo di paglia e sassi, e il maestoso cammello, che ci osserva muovendo soltanto la mandibola, in una rotazione da ingranaggio. Oppure: i suricati, che si azzuffano in quattro attorno a un guscio d'uovo di struzzo, e l'ippopotamo, immerso per ore e ore, emergendo di tanto in tanto per starnutire enormi spruzzi d'acqua fangosa.
Gli erbivori, comunque, si muovono. La giraffa misura il suo recinto a lenti passi asimmetrici, le zebre si lanciano tra gli struzzi con piccoli trotti zigzaganti, i gibboni eseguono complicati esercizi ginnici o si spulciano l'un l'altro con puntiglio.
Quanto ai carnivori, il lupo e la lince si sono nascosti a dormire dietro gli arbusti, l'ocelot si cela nei recessi bui della sua tana di cemento. I leoni mostrano il profilo intagliato contro il cielo opaco di foschia, le tigri offrono di scorcio la loro bellezza da arazzi, i corpi enormi immobili nel torpore. I ghepardi sono macchie di giallo violento nell'ombra.
Poi, il puma. Testa di gatto montata su corpo da leonessa, percorre il semiperimetro della gabbia: prima il tronco sospeso poi lo scalino di roccia ad esso perpendicolare, e poi indietro, e poi ancora avanti. Senza sosta, senza mai rallentare né accelerare. È così la mattina, è ancora così quando ripassiamo, nel primo pomeriggio.
Poi, all'improvviso, si ferma; siede di fronte a noi. Immobilità araldica. Fissa il vetro, anzi sembra fissare proprio noi, dritto negli occhi. Mi chiedo che cosa veda; se ci veda. Spazza la polvere con l'estremità della coda, ma per il resto sembra non respirare nemmeno.
Ci allontaniamo in punta di piedi.

domenica 25 settembre 2016

paesaggio romano

Alle nove del mattino sulla via Salaria
l'amica che smontava dal turno
passava la minigonna a quella che prendeva servizio
e indossava sopra il tanga gli abiti civili
poteva respirare finalmente
liberare i fianchi dalla stretta
l'altra era più giovane più magra
il ventre ancora piatto e le gambe lisce
mandava un ultimo messaggio al cellulare
poi occupava il posto sul bordo del marciapiede
c'era molto sole e anche un po' di vento
che portava via i fumi di scarico.

sabato 24 settembre 2016

colloqui - 3

Quello che farò con te
sarà l'ultimo tentativo
di assediare il rosso
la fiamma intricata all'iride.
La sera è diventata rapida
senza il tuo richiamo – fioco
alla fine del sonno.
Mi sono visto spegnere la bocca
gli intervalli del respiro troppo brevi
per lasciarmi spazio.
Ricordo a malapena
la tua schiena stretta nel sorriso.
Ho seguito l'odore fino al palmo
dove ho smarrito l'ultimo indizio.

venerdì 23 settembre 2016

estiva - 2

I bambini hanno pelli di lontra
le ragazze camminano
con impresso il segno della resa.
Di quanti corpi puoi leggere il rovescio
indovinare il punto
dove la voce si spezza il futuro
tendersi delle guance.
Tutto si confonde nel bagliore
la pelle tesa a rompere nel grido.

giovedì 22 settembre 2016

estiva - 1

Resiste a lungo la scia sonora
dell'areo da caccia
anche dopo che è scomparso
dietro l'altura verde di agavi
salutato dai bagnanti additato
dai bambini coperti di sabbia
e briciole di brioche
resta il rombo cupo quando forse
le ali planano già su Grosseto
è uno spettacolo bello l'ordigno
che taglia l'aria in linea retta
parallelo alla costa
chissà il pilota cosa vede cosa
pensa – schermi
cloche pulsanti l'azzurro
del cielo e del mare
fusi insieme a tracciare la rotta.

mercoledì 21 settembre 2016

Tetramorium caespitum

Il mondo senza l'uomo sarà delle formiche. Come questa che insiste ad attraversarmi la pagina, confondendo gli arabeschi neri delle zampe con i caratteri stampati; e ritorna sempre, anche dopo essere stata proiettata lontano da un colpo secco dell'indice o del medio; e mi passeggia sulle gambe, fermandosi ogni tanto per assestarmi un morso sulla pelle nuda (il formicaio, me ne accorgo ora, è a mezzo metro da dove ho steso il telo), una fitta di sorprendente intensità per un essere tanto minuscolo; e a niente vale scacciarla ancora più lontano, perché pochi minuti dopo una consorella arriverà a ripiantare le mandibole, ad avvisarmi che sì, questo scampolo di pineta, con la fitta macchia di ginepri e i lentischi e i gigli di mare, è solo il primo avamposto del dominio futuro, del mondo senza l'uomo, percorso da infinite brulicanti generazioni di imenotteri, intriso di feromoni, tramato dai grovigli oscuri delle tane.

martedì 20 settembre 2016

colloqui - 2

Le gambe levate il fianco
lasciato nudo
con i chiodi piantati alla spalla
ritorni saltellando sui riflessi.
Dietro di te una spiaggia appena nata.
Sono milioni e milioni le cicale
emerse stanotte dalla terra.
Nel largo vuoto si fa strada l'aria
porta odori di bestia. Insieme
osservavamo i pinnacoli di fumo
mentre il sole ti bruciava le guance.
Se davvero avessimo vissuto
non cercheremmo questa giovinezza
il fondiglio dei rimorsi.
Aprendo gli occhi appare tutto bianco
mi chiedi di prenderti alle spalle
stringi forte alle caviglie preghi
che la visione sia chiara.
Arriverai così: appesa
alle tue piccole mani
inginocchiata con la bocca al seno.
Chi ti ha ingannata è già lontano
tu fumi con le dita contro il vento.

lunedì 19 settembre 2016

Streptopelia turtur

La minuscola mente di Lorenzo fa attrito con l'idea della morte.
“Morirò anch'io?”, chiede, “Anche se prego tanto tanto Gesù?”. “Avrò tempo di fare tutte le cose nella mia vita?”. “Che si nasce a fare, se dopo muori?”. E ancora: “Nascerà mai un altro me?”.
Gli risulta impossibile accettare che la sua piccola fiammella di identità possa un giorno spegnersi, arrendersi all'indifferenziato e buio nulla.
Inutile anche spiegargli che tutto muore, anche gli animali e le piante, insomma tutti gli elementi della natura. “Ma noi non facciamo parte della natura!”, obietta.
Per mesi, in un angolo del piccolo parco di fronte alla palestra, è rimasto il cadavere di una tortora. Pian piano se lo sono mangiato le formiche; ora tutto ciò che ne resta è un ciuffo di piume scolorite, ridotte quasi al solo calamo, e qualche osso grigio e semisbriciolato.
“Gesù non ha un corpo?”, insiste. “Ma allora ha solo la testa? Ma se non ha la carne che cos'ha, solo le ossa? È uno spirito? Ma uno spirito, come i fantasmi che ti spaventano la notte?”.
Gli sembra strano, soprattutto, che Gesù esista, ma non si possa vedere. “Ma non c'è neanche un film? Un DVD? Almeno una foto!”

domenica 18 settembre 2016

fai bene se t'astieni (rime di Argìa Sbolenfi)

Di Olindo Guerrini ho parlato qualche giorno fa, pubblicando le poesie del suo alter ego tisico-maudit Lorenzo Stecchetti. Oggi è la volta di un altro dei suoi pseudonimi: Argìa Sbolenfi, zitellona bolognese alla perpetua ricerca di un marito.

* * *

Si compiace delle prossime nozze
(sonetto sbolenfio)


Spero davvero che il mio fiero isterico
Male, che assale quale un fucil carico,
Cessi gli spessi accessi e il mio rammarico
Cada per strada e vada nel chimerico.

Bandito è il rito ed un vestito serico
Stato è tagliato, come ho dato incarico;
Del normal verginal segnai mi scarico,
Che l’ara cara già prepara il chierico.

Sposo! ed oso un focoso panegirico
In onor di chi al cor l’amor teorico,
(Che splende e non accende) or rende empirico.

Chi è matto affatto, questo fatto storico
Può far burlar nel suo ghignar satirico,
Ma intanto io canto e accanto a LUI mi corico!

* * *

Favolette morali

VII.

Un tonno innamorato
        Lesse i Promessi Sposi
        E tutto riscaldato
        Da sensi religiosi,
        Andò pianin pianino
        A farsi cappuccino.

Morale

Fai bene se t’astieni
        Dal legger libri osceni.


XXII.

La sega ed il ditale
        Sposi a dieci anni soli
        Dal nodo coniugale
        Non ebbero figliuoli,
        Perciò, con atto egregio,
        Fondarono un collegio.

Morale

Son sterili soventi
        Le nozze tra parenti.

* * *

La capretta

Florentem cytisum sequitur lasciva capella.
VIRG. Ecl. II, 64.



Quando trovo qualcun che me la mena,
        La mia capretta, a pascolar sul monte,
        Tutta la sento di dolcezza piena
        Guizzar pel gusto che le brilla in fronte:

E se poi qualchedun me la rimena,
        Corro tosto a lavarla ad una fonte,
        Indi l’asciugo e non è asciutta appena
        Che a trastullarsi ancor le voglie ha pronte.

Sempre sana e piacente, al caldo e al gelo
        Va intorno e cogli scherzi altrui diletta,
        Tanto la tenni e l’educai con zelo.

Eccola quì che una carezza aspetta,
        Fresca, pulita e non le pute il pelo.....
        Dite, chi vuol baciar la mia capretta?

* * *

Ad un orologio guasto

Poi che il pendolo tuo giù penzoloni
            Non ha più moto ed impotente stà
E gl’inutili pesi ha testimoni
            Della perduta sua vitalità,

Vecchio strumento, m’affatico invano
            A ridestar l’antica tua virtù;
Inutilmente con l’industre mano
            Tento la molla che non tira più.

Questa tua chiave, che ficcai si spesso
            Nel suo pertugio, inoperosa è già;
Rotto è il coperchio e libero l’ingresso
            Ad ogni più riposta cavità.

Deh, come baldanzoso un dì solevi
            L’ora dolce del gaudio a me segnar
E petulante l’ago tuo movevi
            Non mai spossato dal costante andar!

Quante volte su lui lo sguardo fiso
            Or tengo e penso al buon tempo che fu.
Se almen segnasse mezzodì preciso.....
            Ma sei e mezza!... e non si move più!




venerdì 16 settembre 2016

lo stile e le ascelle

"Il linguaggio, inoltre, non ha regole fisse: lo trasformano le consuetudini sociali in continua, rapida evoluzione. Molti prendono i termini da un altro periodo, parlano la lingua delle Dodici Tavole; per loro Gracco, Crasso, Curione sono troppo raffinati e moderni, tornano indietro fino ad Appio e Coruncanio. Altri, invece, cercano solo espressioni trite e consuete e cadono nel triviale. Tutti e due gli stili sono corrotti, sia pure in modo diverso, come, perbacco, quando si vogliono usare solo vocaboli splendidi, altisonanti e poetici, ed evitare quelli indispensabili e usuali. A mio parere sbagliano sia gli uni che gli altri: i primi per troppa cura, i secondi per troppa trascuratezza, quelli si depilano anche le gambe, questi neppure le ascelle."

(Seneca, Lettere a Lucilio, 114, par. 13-14)

mercoledì 14 settembre 2016

sogno

Raramente, anzi quasi mai, ricordo i sogni che faccio. Ma questo mi è rimasto impresso perché mi sono svegliato di soprassalto.

Avevo portato mio figlio in un giardino zoologico (non so perché, nel sogno pensavo fosse quello di Fasano, mentre non gli somigliava affatto).
Entravo a piedi, attraverso una cancellata. Passato un androne, mi trovavo in un grande prato. Scorgevo sagome di belve sdraiate, che riconoscevo come iene.
Più andavo avanti, più mi rendevo conto che tutto era in stato d’abbandono. L’erba era disseminata di enormi escrementi, bestie feroci vagavano libere.
Decidevo di tornare indietro e mi trovavo davanti una lunga fila di felini (leoni, tigri, ghepardi) che avanzavano tutti insieme verso di me, uno accanto all’altro, meccanicamente, tutti allo stesso passo, con lo sguardo fisso in avanti. Mi arrampicavo su un basso muretto che faceva da base a un reticolato arrugginito. Le belve mi passavano accanto, ignorandomi.
Raggiunta l’uscita, incontravo delle persone che, arrabbiate, mi spiegavano di aver segnalato il problema alla questura (anzi, “a due questori”, diceva uno), che però non aveva fatto nulla.
Tornavo verso la macchina, rispondendo in maniera brusca a mio figlio, che non sembrava essersi reso conto di ciò che era avvenuto.

(Qui mi sono svegliato.)

martedì 13 settembre 2016

cinque poesie di Luciano Erba

Vorrei passare alla storia
come un’unità di misura
Watt Volt Faraday
oppure dare il nome a una scala
come Mercalli Fahrenheit Réaumur
la mia sarebbe la scala della noia
al grado uno la pioggia di novembre
al due i locali notturni
al tre, quattro… scegliete voi
e così via, fino al nove, me stesso.

* * *

Gli addii

potrebbe essere l’ultima volta che li vedo
mi dici dei tuoi compagni di classe
che ti hanno fatto far tardi
oggi che è finita la scuola
dovrei sgridarti e sto invece ad ammirare
i tuoi quaderni ben ordinati
(con qualche sbavatura d’inchiostro
di dita sudate di giochi di giugno)
in autunno andrai alle superiori
e questa tua bella scrittura un po’ tonda
potrebbe essere l’ultima volta che la vedo.

* * *

Le giovani coppie del dopoguerra
pranzavano in spazi triangolari
in appartamenti vicini alla fiera
i vetri avevano cerchi alle tendine
i mobili erano lineari, con pochi libri
l’invitato che aveva portato del chianti
bevevamo in bicchieri di vetro verde
era il primo siciliano della mia vita
noi eravamo il suo modello di sviluppo.

* * *

se mai ti ricorderò come una madonna senese
tu così bruna, poco ovale, assai illirica
sarà che a volte nel segreto degli occhi
passò una luce d’immensa dolcezza
e tanto bastò perché apparisse un ciel d’oro
di pietà, di letizia sulla selva dei tuoi capelli.

* * *

Senza bussola

Secondo Darwin avrei dovuto essere eliminato
secondo Malthus neppure essere nato
secondo Lombroso finirò comunque male
e non sto a dire di Marx, io, petit bourgeois
scappare, dunque, scappare
in avanti in dietro di fianco
(così nel quaranta quando tutti) ma
permangono personali perplessità
sono a est della mia ferita
o a sud della mia morte?

lunedì 12 settembre 2016

appunti di poetica e retorica

Riflettevo sui criteri che secondo me distinguono una buona poesia da una mediocre.
Me ne sono venuti in mente due.

Il primo è il senso del ritmo. La capacità di far "suonare" la parola: scandirla, esaltarla o, se necessario, spezzarla. Proprio come un bravo jazzista riesce a dar vita a un lick attraverso la gestione delle dinamiche, degli accenti, degli anticipi e dei ritardi.

Il secondo è che una poesia deve fornirmi un'illuminazione estetica. Voglio dire: deve riuscire a farmi vedere le cose in maniera diversa rispetto a come le vedevo prima. Una buona poesia non mi deve proporre le immagini, me le deve imporre.

In fondo, entrambi i criteri si possono riassumere in uno solo: la poesia è uso creativo del linguaggio (che poi, a pensarci bene, è più o meno quello che diceva Roman Jakobson qualche decennio or sono, quando parlava di "funzione po(i)etica" del linguaggio...).

* * *

Corollario 1
Ne consegue che non è poesia parlare di gabbiani, tramonti e cieli stellati (a meno che non si riesca a farlo in maniera nuova e inedita).
E non
è poesia l'usare parole "poetiche" (a meno che... vedi sopra).


Corollario 2
Ne consegue anche che la poesia ha assai poco a che fare con le "emozioni". 

domenica 11 settembre 2016

a proposito di Lorenzo Stecchetti

Quando fu pubblicato, nel 1877, Postuma fece un successo strepitoso, tanto da battere – per dire – le Odi barbare di Carducci.
Sottotitolato Canzoniere di Lorenzo Stecchetti “Mercutio” edito a cura degli amici (e noto anche come Canto dell'odio, dalla sua poesia più celebre), veniva presentato come l'opera di un poeta morto giovane e – ovviamente – tisico, pubblicata ora dal cugino Olindo Guerrini. Sempre a nome di Stecchetti, uscirono nel 1878 altri due volumi, Polemica e Nova polemica.
Si trattava, in realtà, di apocrifi confezionati dallo stesso Olindo Guerrini (1845-1916), personaggio a dir poco bizzarro: poeta, erudito, bibliofilo, nonché appassionato di pseudonimi e di parodie. Fra le sue opere, figurano uno studio su Vita e opere di Giulio Cesare Croce (il primo studio filologicamente accurato sull'autore di Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno), una dotta dissertazione su La tavola e la cucina nei secooli XIV e XV, ma anche un trattato su L'arte di utilizzare gli avanzi della mensa e versi comici, sia in dialetto romagnolo e veneto, sia in italiano, tra i quali le Rime di Argìa Sbolenfi, che descrivono gli insaziabili desideri sessuali di una zitella e per i quali Guerrini inventò il sonetto sbolenfio, con un complicato schema di rime al mezzo.
In Postuma, Guerrini/Stecchetti si diverte a ricalcare i modi della più svenevole poesia romantica, ma anche a rifare il verso alla Scapigliatura, con le sue tematiche macabre e maledettistiche, alternando qua e là poesie di vena satirica e anticlericale. Il fascino del libro sta nel fatto che la mimesi è talmente sottile da non lasciare, spesso, distinguere il confine tra adesione e parodia.
Guerrini, comunque, è dotato di una indubbia facilità di versificazione, tanto che alcuni suoi versi divennero proverbiali (fu lui a inventare il celebre “Armiamoci e partite”).
Qui di seguito, una scelta di poesie da Postuma.
(Se vi interessa, su Wikisource c'è il testo integrale.)

* * *

XIX.

Questa notte allungai la passeggiata
Sino al balcon della fanciulla mia.
E vidi un’ombra bianca ed agitata
Accennar di lassù verso la via.

Un brivido mi corse sotto ai panni:
«È un’ora che ci amiamo e già m’inganni!

Perchè, perchè questa finzione orrenda?
Amor mio, che t’ho fatto...?» — Era la tenda.

* * *

XX.

Quando tu sarai vecchia e leggerai
Questi poveri versi accanto al fuoco,
Rivedrai colla mente a poco a poco,
           I giorni in che t’amai.

E ti cadrà sul petto il viso smorto,
Per la memoria del tuo tempo lieto:
A me ripenserai nel tuo segreto,
           A me che sarò morto.

E ti parrà d’udir la voce mia
Nel vento che di fuor suscita il verno
E ti parrà d’udir come uno scherno,
           Una bieca ironia.
E la voce dirà: «Te ne rammenti,
Te ne rammenti più? Com’eran belli
I tuoi capelli d’oro, i tuoi capelli
           Sul bianco sen fluenti!

Oh, come il tempo t’ha mutata! Oh, come
T’ha impresso in viso i suoi pallidi segni!
Dove son dunque i tuoi superbi sdegni
           E le tue bionde chiome?

Sola al tuo focolar siedi, piangendo
La giovanil tua morta leggiadria;
Io piango solo nella tomba mia;
           Vieni dunque: t’attendo!

Vieni e se in vita mi fallì la speme
Di viver teco i giorni miei sereni,
Ci sposeremo nella tomba. Vieni;
           Vi marciremo insieme.»

* * *

XXXVII.
Kennst du das Land...?
(GOETHE)




Conosci tu il paese
Dove non s’è mortali,
Dove alla fin del mese
Non scadon le cambiali?

Quell’Eden ben pasciuto
Pieno di facce grasse
Che non han mai veduto
L’agente delle tasse?

Conosci tu il paese
Che non conosce i preti,
Le bettole, le chiese,
Le ciarle dei poeti?

Dove non c’è soldati,
Dove non c’è catene,
Dove gl’innamorati
Si voglion sempre bene?

Ivi nessun ha detto
Che donna dice danno,
Perchè lassù l’affetto
Esse scontar non sanno.

Oh, chi trovar sapesse
Un’anima cortese
Qualunque, che potesse
Mandarti a quel paese?

* * *

XXXVIII.

MEMORIE BOLOGNESI

[…]

Fu all’ombra de’ tuoi viali, o San Michele,
Ch’io la trovai, la donna del mio core,
La giovinetta che mi fu fedele
         Quasi ventiquattr’ore!

Coi gomiti sul ponte ella volgea,
Come una santa al ciel le luci belle,
Ed io, poichè l’amor già mi tenea,
         Chiesi — guarda le stelle? —

Ella chinando gli occhi di colomba,
Gli occhioni di colomba innamorata,
Rispose — no; sto qui a sentir la tromba
         Suonar la ritirata. —

Era bionda e pareva un’angioletta,
Una cosa di ciel che non ha nome
E come un casto odor di mammoletta
         Uscia dalle sue chiome.

Io le dissi — fanciulla, Iddio ci sente:
La gran parola in faccia a lui diciamo!
Di’, giovinetta bionda ed innocente,
         Di’, vuoi tu amarmi? Io t’amo. —

Ella rispose — come sei gentile!
Stiamo in Sant’Isaia, numero tale,
La porticina in fondo del cortile,
         Su due rami di scale —

[…]

* * *

LIII.

Emma, ti lascio a tavola
Ed io ritorno a casa a prender fiato.
Bevi, bevi a tuo comodo,
Sta pur tranquilla, il conto è già pagato.

Son diventato pallido?
Ci son avvezzo: non è nulla, taci:
M’han guastato lo stomaco
Le polpette dell’oste ed i tuoi baci.

* * *

LXI.

T'ho fatto il precettore,
Ragazza, e ne son stanco;
Non t’ha fatta migliore
La scuola e me nemmanco.

Io mi volea l’amore
Non la lussuria al fianco,
Io ci voleva un core
Sotto al tuo seno bianco,

Ma tu la poesia
La cerchi nei conviti
Grassi alla trattoria.

Dunque finiam le liti:
Scappa ragazza mia:
Noi non ci siam capiti.

sabato 10 settembre 2016

cose inquietanti

Sfoglio l'antologia di uno dei primi premi poetici che vinsi (1994) e ci trovo... questa.



P.S.: dal curriculum, scopro anche che ha collaborato con il giornale del mio paese; pensa te...

venerdì 9 settembre 2016

dubbi

E pur mi sento nel cervello anch'io
Qualche cosa che vive e che lavora,
E pur quest'aura che il mio volto sfiora
L'alito par dell'agitante Iddio!

Talor cedendo a' sogni miei m'avvio
Pe' floridi sentier che il mondo ignora;
Salgono i canti alle mie labbra allora
E spero e credo nell'ingegno mio.

Ma quando il dubbio mi risveglia, quando
Via per la nebbia del mattin tranquille
Sfuman le larve che seguii sognando,

Colle man mi fo velo alle pupille,
E mi guardo nel core e mi domando:
Sono un poeta o sono un imbecille?

Lorenzo Stecchetti (Olindo Guerrini), "Postuma", VII

giovedì 8 settembre 2016

similitudini

Amore, gioventù, liete parole,
cosa splende su voi e vi dissecca?
Resta un odore come merda secca
lungo le siepi cariche di sole.

* * *

Forse l'ispirazione è solo un urlo
confuso. Ma entro le colonne della
legge, ridendo si masturba ogni fanciullo.

(Sandro Penna)

mercoledì 7 settembre 2016

poesie per un'amica lontana - 9

Quando il tuo volto – così raramente –
si apre nel sorriso
quando i due lati dello zigomo accolgono
la luce che ti crea

e quando tutto accade
lontano – in un'inquadratura mossa
su uno sfondo che non so decifrare
in mezzo a voci ignote

allora mi vengono in mente versi
che non riesco a scrivere
meglio un disegno forse
un modo diverso di accarezzarti.

martedì 6 settembre 2016

Bolinus brandaris




Punta Ala. A caccia di granchi (per puri scopi di osservazione scientifica).
Durante la bassa marea, esploriamo gli scogli che separano la spiaggia dalla foce del torrente Alma, che si incassa tra ripide rive orlate di canneti, ai piedi di un alto sperone di roccia coperto di fitta macchia mediterranea e di enormi agavi, con in cima una villa turrita che domina Cala Civette e l'intero Golfo di Follonica.
Cerchiamo tra le basse pozze di marea, rimestiamo la fanghiglia grigiastra, spostiamo i sassi limacciosi. Frotte di granchietti scappano saettando in tutte le direzioni.
Per catturarli, occorre sviluppare due tecniche distinte: l'avvicinamento e la cattura vera e propria. Gli occhi acuti dei granchi, ben alti ai due angoli opposti del corpo, percepiscono il minimo movimento e li fanno scattare fuminei a rifugiarsi negli gli anfratti melmosi, sotto le pietre dalle quali è impossibile snidarli. Occorre quindi tenersi bassi, evitare di stagliarsi contro il cielo, arrivare loro da dietro, protetti da qualche sporgenza o macigno. Quanto alla cattura, inutile tentare di batterli sui riflessi. Dopo numerosi errori, arriviamo a elaborare due tecniche. La prima prevede che, giunti di soppiatto il più vicino possibile alla preda (in silenzio, con movimenti lentissimi, se necessario con lunghe attese, perfettamente immobili, finché l'animaletto si fidi a mettere fuori le chele), si posizioni il retino nella probabile direzione di fuga e si cerchi di spingercelo, usando le mani o un bastoncino raccolto all'uopo. La seconda richiede di calare rapida una mano, bloccandolo contro il sasso, e con l'altra afferrarlo come ho imparato a fare, bambino, osservando mio padre: da dietro, sotto il carapace, dove le chele acuminate non possono arrivare. Quelli che conoscevo io erano granchi di sabbia, giallo-rosati, con l'ultimo paio di zampine a forma di spatola per nascondersi sul fondale; questi invece sono granchi di scoglio, neri (anche se spesso verdastri di fango e alghe), con tutte le zampe acute per aggrapparsi alle rocce.
Uno, bello grosso, mi sfugge di mano lasciandomi per ricordo una zampina rattrappita. Nel retino ne finiscono due, entrambi storpi: a uno mancano entrambe le chele, a un altro due zampe dal lato sinistro. Quando li prendo in mano si agitano ticchettando, mi solleticano i polpastraelli.
Scopriamo infine che i più facili da catturare sono quelli grossi, più lenti e meno capaci di ripararsi negli anfratti. Molto rari, purtroppo; uno ne becchiamo, che passeggia per il fondale fidando nel potere mimetico delle alghe che gli ricoprono il dorso, fino a infilarsi docilmente, quasi senza coercizione, nel retino.
Completata l'esplorazione della sponda meridionale, guadiamo il torrente, saltando sui sassi piatti semisommersi, attenti a evitare la melma nera in cui si affonda come nelle sabbie mobili. L'acqua, che di prima mattina era limpida e verde, ora, via via che si avvicinano le ore più calde, acquista un odore acuto, un misto di chimico e di marciume. Un enorme granchio flotta sul fondo, morto ma ancora integro, le chele brillanti di giallo e di rosso. Ci portiamo verso il mare, dove l'odore si fa decisamente più salino; alghe e patelle si incrostano sotto le pietre rese lucide e affilate dal lavorio delle onde. Piccoli gamberetti grigiastri, quasi trasparenti, si aggirano indaffarati, minuscole bavose scivolano velocissime lungo il fondo, altri pesci che non so identificare manovrano virando in banchi sincronizzati.
Sollevando un grosso masso, le vedo: l'una accanto all'altra, due conchiglie di murice. Li estraggo dalla mota, li sciacquo tra le onde. Sono integri, uno coperto di alghe, l'altro già ripulito. I gusci avvolti in spire rugose, che si allargano in sequenza fibonacciana, decorati da escrescenze corniformi.
Sono i molluschi più preziosi dell'oro, dai quali gli antichi estraevano la porpora, la tinta dei re e degli imperatori (“Distinguit ab equite curiam, diis advocatur placandis; omnemque vestem illuminat: in triumphali miscetur auro. Quapropter excusata et purpurae sit insania”, Plinio, Nat. Hist., IX, 60). Predatori necrofagi, che forano le conchiglie (“tanto duritia aculeo est”, sempre Plinio) e liquefanno gli inquilini iniettando una secrezione acida.
Tornato all'ombrellone, li disegno a tratteggi incrociati, divertendomi a riprodurre con cura le minime irregolarità della superficie, le spire cuspidate, le spine calcaree, l'elegante rastrematura del sifone. A casa, dovrò lavarli più e più volte per eliminare le incrostazioni e il fango, ma per settimane continueranno ad esalare un fortore salmastro, il cui alone resisterà fino nel cuore dell'inverno.

lunedì 5 settembre 2016

colloqui - 1

Oggi urti ovunque
la pelle obbedisce alle ossa
rimane tesa
anche quando le dita lasciano
eritemi fra un angolo e l'altro
custodisci ciò che è meno controllabile
nel frattempo la stoffa ti disegna
e tutte le linee assumono le giuste relazioni
i denti sollevano il labbro
ogni respiro sposta avanti il limite
mordi fino a tutto il tenero
anche tu hai una voce che ti marchia
e io ti indovino pendere nella poca luce
la carne scura accanto al bianco
sotto le mani l'odore che mi accende.

domenica 4 settembre 2016

poesie per un'amica lontana - 8

Poi dal sogno sono cadute
queste immagini di te
hai il sapore
di piombo delle tipografie
l'odore di una linotype
una vecchia macchina ben oliata.

sabato 3 settembre 2016

Helix adspersa

La chiocciola, sì. Quella bestiolina che, secondo il Giusti, “unisce il merito alla modestia”. Il cui guscio striato e spiraliforme campeggia in tanti libri per bambini.
Però è tutta questione di proporzioni. Vista da vicino, la chiocciola ha una tremenda lingua rasposa, la “radula”. Corteggia le sue simili infilzando loro uno stiletto calcareo nelle mucose. Poi si accoppia, feconda e viene fecondata, perché è ermafrodita.
Capitava di trovarle in letargo, in qualche anfratto del muro, con il guscio tappato da una sottile membrana, che crepitava sotto la punta del dito. Se le si beccava a passeggio, per ucciderle bastava cospargerle di sale finché la pelle, disidratata, si accartocciava.
Le “ciambrachelle” (“ciambracune” se erano grosse), mio padre le raccoglieva nei campi, dove dopo la pioggia uscivano per accalcavarsi sui fusti spinosi dei cardi. Poi le metteva a spurgare in una pentola piena di farina (sollevavo il coperchio per guardare quell'inferno di corpi striscianti, bave ed escrementi) e infine le cucinava stufate con la menta, oppure con il pomodoro.
Con uno stuzzicadenti si estraeva l'animale dal guscio, dove si era rintanato per sfuggire al calore. Veniva fuori tutto rattrappito, ma ancora attaccato ai visceri, avvolti in una spiralina nera che si doveva mordere e sputare via, per mangiare solo la piccola callosità del corpo.

venerdì 2 settembre 2016

la più bella poesia

La più bella poesia?
Non l'ho mai scritta.
Dal fondo del fondo sorgeva.
L'ho zittita.

* * *

Mein schönstes Gedicht?
Ich schrieb es nicht.
Aus tiefsten Tiefen stieg es.
Ich schwieg es.

Mascha Kaléko
(traduzione mia)

giovedì 1 settembre 2016

i poeti sono vivi (e presentano libri)



Lunedì 5 settembre, alle ore 19, presso la libreria Orsa Minore (via Soccorso, San Severo, FG) verrà presentata l'antologia Sotto il più largo cielo del mondo. Trenta poeti dauni.
Ve lo dico perché tra gli antologizzati c'è anche il vostro aff.mo blogger, che parteciperà all'evento con altri colleghi versificatori.
Se siete in zona, vi aspetto.

poesie per un'amica lontana - 7

Lo sai a volte mi manchi
come una fitta improvvisa
chissà da dov'è saltato fuori
il pensiero di te
stavo facendo tutt'altro lo giuro
e adesso ho il tuo volto che mi preme
sull'interno del petto
lo so che non ci sei
ma sono sicuro che sei qui.