giovedì 31 luglio 2014

pelli clandestine (una poesia di Moira Egan)

D'habidute

“Dio, gli umani sono creature dell'abitudine”,
dico a nessuno in particolare,
me stessa, l'uomo che chiama sé stesso il mio
amante, dietro di me nella stanza accanto.

Il modo in cui ridiamo quando pigiamo l'interruttore
sapendo che non c'è elettricità,
o giriamo il rubinetto per lavarci le mani,
e comunque, idraulici dabbasso, niente acqua.

Fa' ciò che hai sempre fatto, e otterrai
ciò che hai sempre ottenuto. Questa è la nostra
omelia in questi giorni, e io
ci credo. Dio, umani, creature, eccoci qui

sistemati nella catena cosmica dell'essere
lui nella stanza accanto, io al lavoro.
lui legge, in silenzio, poesie
che lo fanno gemere. È dolce perché

sono le mie. Lui, ovviamente, non lo è.
C'è una donna a qualche chilometro da qui
che è ancora qui con noi, un angolo
della stanza e la nostra coscienza solo

per lei. Mi pare di essere sempre stata il terzo
angolo del triangolo, il caos
a forma di cuore creato da un sì
nato da un no. E ciò che so adesso

è che lo voglio da sola, il lento gemito
mio, niente più occhi nell'ombra che scrutano
negli angoli, dalle persiane. Fa' cio che hai fatto
sempre? sempre, traccerò pelli clandestine.

Moira Egan


traduzione mia - l'originale qui


diario toscano - quinto giorno

Mercoledì 30 luglio – quinto giorno

La pioggia ha continuato a venir giù, a secchiate, per buona parte della notte.
La mattina alle sei e mezzo, quando metto il naso fuori dal bungalow, tavoli e sedie sotto il gazebo sono fradici, il piazzale è cospaso di un misto di sabbia, aghi e corteccia di pino triturata, le strade del campeggio sono costellate dalle pozzanghere. Scopro che non mi serve solo la felpa, ma anche un giubbotto, perché l'aria punge.
Per fortuna, il cielo sembra limpido e le poche nuvole sono di un color rosa tenero e rassicurante. Le cime dei pini sono lambite da una luce dorata e i gridi rauchi delle ghiandaie si inseguono di ramo in ramo, sopra il basso continuo delle tortore. Soltanto verso il mare c'è un grosso fronte nuvoloso nerastro, che però non vedo chiaramente, semicoperto com'è dalla pineta.

Le misteriose vie del firewall. Mi blocca il sito della Repubblica, ma non quelli del Corriere, de La Stampa, l'Unità, il Manifesto, il Giornale ecc. Considera “pericoloso” anche il blog di un mio amico, che si chiama “Guardare e leggere” e si occupa perlopiù di semiotica.

Okay, come non detto. Ore 7:11, ricomincia a piovere.

I traffici degli uccelli.
Un minuscolo passero si posa, sotto la pioggia, sul filo dei panni. Getta piccoli zirli acuti e spaziati.
Una ghiandaia atterra a un metro da me, si guarda attorno con i grandi occhi rotondi, poi raccoglie una briciola di pane e va a mangiarsela su un ramo basso, poco più in là. Ne arriva subito una seconda, ma la prima si rizza, gonfia il petto, innalza una cresta di penne sulla cima del capo e la scaccia con un grido e un paio di beccate energiche e precise. La vincitrice rimane lì per un minuto, poi vola via, mentre la sconfitta resta a lungo per terra, con aria afflitta.

Lorenzo, spaparanzato sul letto in attesa della colazione:
“Ah, com'è bella la libertà!”

Piove piove piove. “Gesù, e comme chiove...”
Piove a scroscio, a catinelle, a secchiate. A sgrullate, come dicono a Perugia.
Piove come Dio (o chi per lui) la manda.
“Piove / in assenza di Ermione / se Dio vuole”.
Piove e una gazza risale le biforcazioni di un pino fino a perdersi nella chioma.

“Mamma, ciò una fame da bàlbalo!”

Ore undici e trentacinque.
La pioggia non smette, né sembra averne la minima intenzione. Aumenta, anzi.
I bambini giocano sul lettone, come su un enorme transatlantico assediato dagli squali.
(Lo squalo è, ovviamente, il papà).

- Per entrare, dovete dire la parola d'ordine!
- E qual è?
- “Per favore, posso entrare?”

Il wireless del campeggio oggi è lentissimo, nonostante il segnale si prenda chiaramente. La banda sarà occupata da orde di turisti tappati in casa dal maltempo.

Osservando la faccia di Daniela mentre, per la centesima volta, provo maldestramente a suonare il riff di “Tutta n'ata storia”, improvvisamente provo compassione per i nostri poveri vicini di bungalow.

“Con un tempo così, l'unica è mangiare”.
(Saggezza femminile.)

Verso le cinque e mezza, dopo dieci ore ininterrotte d'iradiddio, la furia degli elementi si placa, il cielo si apre, il sole spunta a far la conta dei danni. I campeggiatori rimettono la testa fuori da tende, camper e bungalow, come chiocciole dal guscio.
Ne approfittiamo per una passeggiata prima di cena.

mercoledì 30 luglio 2014

diario toscano - quarto giorno

Martedì 29 luglio 2014 – quarto giorno

Nottata di sogni frenetici, di cui ricordo molti particolari. Infatti*, quando mi sveglio scopro che il tempo è cambiato. Il cielo è grigio e quando esco sento il bisogno di una felpa. Un ticchettio sulla cima dei bungalow si trasforma ben presto in una pioggerella monotona e insistente, che mette a tacere persino l'eterno “uh-UH-uh” dei piccioni.

* Per comprendere questa congiunzione dichiarativa, bisogna sapere che di solito il mio sonno ha una consistenza granitica e quando ne riemergo non ricordo mai nulla dei sogni che ho fatto. Se li ricordo, significa che ho dormito male, e una delle cause può essere un improvviso cambiamento nel tempo, al quale, da bravo meteoropatico, sono estremamente sensibile.

Alla pioggia si aggiunge una notizia triste. È scomparso, a ottantaquattro anni, uno dei pionieri del jazz europeo: Giorgio Gaslini.
Non posso riassumere in poche righe la sua attività, che spazia lungo settant'anni di jazz e di musica contemporanea. Fu, tra l'altro, il primo a insegnare jazz in Conservatorio (poi il corso fu chiuso per eccesso di iscritti; eh, sì...). L'avevo intervistato un paio di mesi fa, per un servizio su Steve Lacy; era stato gentilissimo, di una lucidità e precisione invidiabili. Un vero signore, con tocco di narcisismo da artista, che non guastava. Parlava, come se niente fosse, di cene e chiacchierate con gente come Max Roach, Don Cherry, Cecil Taylor.
Chi non segue il jazz, ma ha almeno un minimo di interesse per il cinema, lo ricorderà ne “La notte” di Antonioni. Tutta l'ultima sequenza del film ha il suo gruppo che suona in scena, dal vivo. L'ultimissima scena è scandita dal suo lacerato “Blues all'alba”.

(Ah, sì, Gaslini ha scritto il temino di “Profondo Rosso”. Che peraltro a Dario Argento non piacque e lo fece rielaborare il stile progressive da quel gruppetto di carneadi. Ovviamente, su tutti i giornali c'è scritto solo quello. Vabbè...).

Pulchra enim sunt ubera quae paululum supereminent et tument modice, nec fluitantia licenter, sed leniter restricta, repressa sed non depressa.*” (Gilberto di Hoyland, XII sec., citato nel “Nome della rosa”)
Questi medievali sì, che se ne intendevano...

* “Belli dunque sono i seni che sporgono un poco e si gonfiano leggermente, e non dondolano a piacere, ma sono un po' trattenuti, contenuti non schiacciati”. (Un vero peana al seno piccolo e sodo, che personalmente sottoscrivo in pieno).

Finito il libro di Tournier. Pausa di meditazione per scegliere il prossimo da leggere.
Finito di riguardare, per documentazione, “Il jazz classico. Gli anni Venti” di Schuller e “Il jazz e l'Africa” di Luigi Onori. Riguardo qualche capitolo della “Storia del jazz” di Zenni. Ho anche attaccato il tomone di “The Music of Black Americans” della Southern, e forse questa è la volta che me lo leggo tutto da cima a fondo.

Bene, nuovo libro scelto. “Léon l'Africain” di Amin Maalouf, pescato su una bancarella dell'usato qualche settimana fa. La biografia semi-romanzata di un personaggio straordinario: al-Hassan ibn Muhammad al-Wazzan al-Fasi, alias Leo Africanus, o Leone l'Africano, o Leone de' Medici. Se non sapete chi è, chiedete a Wiki.

Mattinata di relax. Tra una pausa e l'altra della pioggia i bambini giocano sul piazzale, la mamma sbriga qualche faccenda, il papà studia. Eli fa qualche compitino di inglese per le vacanze.
Dopo pranzo, in uno sprazzo di sereno, passeggiata sulla spiaggia. Il cielo è ancora rimescolato dal temporale. Nuvoloni sfrangiati color grigio scuro occupano un grande semicerchio proprio sopra la spiagga, aprendosi un po' solo verso il largo, in direzione dell'Elba. Il mare è una lastra di metallo grigio e increspato.

Lorenzo vede la sua prima libellula; quasi trasparente tanto è sottile. Ogni volta che le vedo, mi chiedo come facciano a tenersi insieme questi organismi all'apparenza così delicati, i cui corpi sono tanto estesi in lunghezza e tanto poco in larghezza; le paragono alla struttura massiccia dei coleotteri, alle elitre spesse, agli addomi corazzati. Eppure, le libellule sono fra gli esseri più antichi sulla faccia della Terra, praticamente immutate da milioni di anni.

Leggo sulla pagina Facebook del musicologo Stefano Zenni che il TG1 ha avuto la bella idea di celebrare Giorgio Gaslini con un filmato di repertorio. Peccato che a suonare ci fosse non Gaslini, ma Enrico Intra, da lui cordialmente detestato.
Manco da morti si può aver pace...

Lorenzo corre sulla riva del mare, minuscolo con le sue ciabattone e con il suo caschetto di capelli biondi. La spiaggia è stata ripulita dalle onde, ma lui è fiero del tesoro che ha raccolto: due mezzi gusci di tellina, che a casa mostra tutto orgoglioso alla mamma e alla sorella.

“Lorenzo, che fai con quel sasso?”
“Ammazzo una fommica.”
“Ma perché, poveretta?”
“Pecché pottava da mangiare ai tuoi bambini.”
“E adesso?”
“Muoiono pule i bambini.”

Dopo la cena e il rituale salto alla baby-dance (Eli è una ballerina scatenata, Lorenzo invece, nonostante i suoi modi da teppa, è molto restio a stringere amicizie) facciamo appena in tempo a tornare al bungalow. Ci dà la buonanotte la pioggia che ha ripreso a scrosciare.

martedì 29 luglio 2014

diario toscano - terzo giorno

Lunedì 28 luglio 2014 – terzo giorno

I grossi uccelli di cui è popolata la pineta (che poi, in realtà, solo pineta non è, dato che conserva esemplari sparsi di querce da sughero, che erano la vegetazione originaria di queste coste, prima che l'uomo vi impiantasse i pini marittimi). “Gli uccelloni”, come li chiama Lorenzo. Hanno il corpo di un color caffellatte che sfuma nel violetto, le punte delle ali e della coda a strisce bianche e nere, un tozzo becco anch'esso nero. Il verso è simile a quello delle cornacchie. Ma il tratto più caratteristico è la striscia di piume blu elettrico, picchiettate di nero, sul lato esterno dell'ala.
Scopro trattarsi di ghiandaie (Garrulus glandarius).

Di notte leoni, di mattina coglioni. Si sa, no? Ma a sei anni?

“Lo incuriosiva l'armeggio di un imenottero maschio che visitava solo una certa varietà di orchidea ma non sembrava preoccuparsi in alcun modo di predarne il polline. Passò lunghe ore armato di lente per cercar di decifrare il comportamento dell'animaletto. Scoperse anzitutto che il fiore riproduceva esattamente in materia vegetale l'addome della femmina di questo insetto al punto di presentare una specie di vagina che molto probabilmente emanava lo specifico odore afrodisiaco atto ad attirare e sedurre l'innamorato. L'insetto non predava il fiore, lo stuzzicava, poi lo possedeva secondo i riti di fecondazione propri della sua specie. Nel far ciò si trovava in posizione adatta a che il polline riunito in due ricettacoli venisse a applicarglisi sulla fronte grazie a due capsulette vischiose, e ornato di questo paio di corna vegetali il beffato amatore continuava a passare da fiore maschile a fiore femminile e si affannava per il futuro dell'orchdea credendo di servire la propria specie. Simile parossismo di astuzia ingegnosa poteva far sorgere dubbi sulla serietà del Creatore. A modellare la natura era stato dunque un Dio infinitamente saggio e maestoso, o un demiurgo barocco spinto alle combinazioni più folli dall'angelo della stramberia? Respingendo tali scrupoli, Robinson immaginò che certi alberi dell'isola avrebbero potuto decidere di servirsi di lui – come le orchidee utilizzavano gl'imenotteri – per trasportare il polline. Allora i rami di quegli alberi si sarebbero trasformati in donne lascive e profumate dai corpi inarcati pronti ad accoglierlo.
Percorrendo l'isola in tutti i sensi, finì per scoprire infatti una quillaja il cui tronco – probabilmente abbattuto dal fulmine o dal vento – strisciava a poca distanza dal suolo dividendosi in due grosse ramificazioni principali. La scorza era tiepida e liscia, anzi soffice all'interno della biforcazione la cui ascella era rivestita d'un lichene fine e morbido come seta.
Per molti giorni Robinson esitò sulla soglia di quella che avrebbe chiamato in seguito la via vegetale. Tornava a girellare con aria subdola attorno alla quillaja, riuscendo a trovare un sottinteso in quei rami che si allargavano sotto l'erba come due enormi cosce nere. Infine si stese nudo sull'albero fulminato stringendone il tronco con le braccia, e il suo sesso si avventurò nella piccola cavità muschiosa che si apriva alla giuntura dei due rami. Una inerzia beata lo intorpidì. Con li occhi socchiusi vedeva una pioggia di fiori dalle carni cremose le cui corolle versavano pesanti effluvi che gli davano alla testa. Socchiudendo le umide mucose quei fiori sembravano aspettare un dono del cielo solcato dal pigro volo degl'insetti. Non era Robinson l'ultimo essere della stirpe umana chiamato a un ritorno alle origini vegetali della vita? Il fiore è il sesso della pianta, e la pianta offre a chiunque il suo sesso come ciò che ha di più billante e di più odoroso. Robinson immaginava un'umanità nuova in cui ognuno portasse sulla testa i propri attributi maschili o femminili – enormi, luminosi, profumati...
Ebbe lunghi mesi di relazioni felici con Quillaja”.
(M. Tournier, "Venerdì o il limbo del Pacifico", pp. 117-118)

“Bravo, amore, avete fatto un castello con il papà! E ora, che stai costruendo?”
“No, io dittluggo!”

“Lorenzo, mettiti il cappello, sennò ti cuoci il cervellino e stasera lo mangiamo per cena.”
“Ah ah! Ma tta nella tetta! Come facete a cuocìrlo?”

Utilità pedagogica dei castelli di sabbia, che forniscono nozioni di:
- architettura;
- geometrica teorica e applicata;
- meccanica;
- idraulica;
oltre ad allenare alla collaborazione, alla decisione democratica e al senso delle gerarchie.
Ovviamente, il senso profondo del tutto consiste nel fatto che a divertirsi più di tutti è il papà.

L'essenza della vacanza consiste innanzi tutto in un cambiamento nell'estensione del tempo, direi in una sua espansione elastica. Al tempo frammentario, nevrotico della vita normale si sostituiscono vasti territori di tempo uniformi, orizzontali, privi di cesure.
Esempio: ho cominciato il libro di Tournier sabato e sono (alle 16,30 di lunedì) a pagina 182. Non mi succedeva dai tempi dell'adolescenza, il cui tempo era ugualmente vasto, suddivisibile all'infinito e impiegabile a piacimento, senza che mai si esaurisse.

Nel libro di Tournier, Venerdì spezza la dialettica padrone-schiavo facendo – involontariamente, ma fatalmente – saltare in aria l'isola e tutte le ordinate costruzioni e coltivazioni impiantate da Robinson. Il quale osserva la rovina con un senso di liberazione, quasi di sollievo.
Sempre più mi convinco che i libri Tournier abbiano per me un valore oracolare.

Il “pùttalop”. Ossia, il bungalow, in lorenzese.

Pescare alla cieca, con le mani, nella sabbia del fondale. Trovare una tellina, spaccare il guscio con i denti, mangiarla ancora viva, condita solo con acqua di mare.
Gesti che riportano all'infanzia.

Ricordo d'infanzia: un gruppo di teppistelli che si divertivano a sfondare i castelli di sabbia a calci. Io che un giorno trovo un mattone ci costruisco intorno una splendida torre di sabbia.
Unico rammarico: non essere rimasto lì per assistere allo spettacolo.

In effetti la casa dei doganieri non è il limite estremo della cala.
Lo sperone roccioso è ricoperto di macchia mediterranea (riconosco pini, agavi, fichidindia, forse dei ginepri o dei lentischi, più altre a cui le mie carenze botaniche mi impediscono di assegnare un nome) ed è separato dalla spiaggia da una scogliera artificiale, dietro cui si incunea la foce di un fiume dalle acque verdi, trasparenti e freddissime, popolate da granchi e da pescetti che si muovono in banchi disciplinati.
Al di là, c'è un'altra spiaggetta, e poi un'altra punta rocciosa, molto più grande, massiccia ed avanzata. Ancora dopo ci sono (ma da qui non si vedono) Cala Violina e Cala Martina, raggiungibili solo a piedi da una mulattiera (ci andammo con Daniela in una delle nostre prime vacanze qui: non c'erano i bambini, forse nemmeno eravamo ancora sposati). In fondo, si intavede Follonica, e più oltre un azzurreggiare di alture sempre più trasparenti nella distanza, che arrivano fino a Piombino.
Le ultime propaggini vanno quasi a fondersi con l'estremità dell'Elba, che con il suo profilo domina metà dell'orizzonte.

lunedì 28 luglio 2014

contest poetico: sabbia

Orologio molesto

Poca polve inquïeta, a l'onda, ai venti
tolta nel lido e 'n vetro imprigionata,
de la vita il cammin, breve giornata,
vai misurando ai miseri viventi.

Orologio molesto, in muti accenti
mi conti i danni de l'età passata,
e de la Morte pallida e gelata
numeri i passi taciti e non lenti.

Io non ho da lasciar porpora ed oro:
sol di travagli nel morir mi privo;
finirà con la vita il mio martoro.

Io so ben che 'l mio spirto è fuggitivo,
che sarò come tu, polve, s'io mòro,
e che son come tu, vetro, s'io vivo.

Ciro di Pers

* * *

La sabbia del tempo

Come scorrea la calda sabbia lieve
per entro il cavo della mano in ozio,
il cor sentì che il giorno era più breve.

E un'ansia repentina il cor m'assalse
per l'appressar dell'umido equinozio
che offusca l'oro delle piagge salse.

Alla sabbia del Tempo urna la mano
era, clessidra il cor mio palpitante,
l'ombra crescente d'ogni stelo vano
quasi ombra d'ago in tacito quadrante.

Gabriele D'Annunzio

* * *

Variazioni su nulla

Quel nonnulla di sabbia che trascorre
Dalla clessidra muto e va posandosi,
E, fugaci, le impronte sul carnato,
Sul carnato che muore, d'una nube...

Poi mano che rovescia la clessidra,
Il ritorno per muoversi, di sabbia,
Il farsi argentea tacito di nube
Ai primi brevi lividi dell'alba...

La mano in ombra la clessidra volse,
E, di sabbia, il nonnulla che trascorre
Silente, è unica cosa che ormai s'oda
E, essendo udita, in buio non scompaia.

Giuseppe Ungaretti

diario toscano - secondo giorno

27 luglio 2014 – secondo giorno

La mamma ha l'allergia. Elena pure. E Lorenzo è raffreddato. Ma il vero problema è che la sinfonia dei nasi soffiati è profondamente aritmica. Prima o poi il papà dovrà decidersi a dare ordine al tutto. Una bella partitura scritta è quel che ci vuole.

Il profumo dei pini alle sette e mezza del mattino. Oh, adesso cominciamo a ragionare...

“Mamma, lo tai? La tella sembla neve, ma neve mallone!”.

“Papà... pecché i camion che tlappottano la tella tlappottano la tella?”.

Pagine e pagine di appunti, che non finiranno mai nel libro, ma che ne costituiscono una parte essenziale.

Un grazie al meteo, che rende infinitamente ricche di sorprese le nostre giornate. Tempo così-così alle 7,30, nero cupo alle 9, magnificamente soleggiato a mezzogiorno.

“Lo slancio di allegria puerile che aveva trascinato Robinson ricadde mentre si dissipava anche quella specie di ebbrezza in cui lo aveva trattenuto il suo lavoro forsennato. Si sentiva sprofondare in un abisso di sconfortante abbandono, nudo e solo, senz'altra compagnia che quella di due cadaveri in putrefazione sul ponte di un relitto. Solo più tardi avrebbe capito la portata di quell'esperimento di nudità che faceva per la prima volta. Certo, né la temperatura né un qualsiasi senso del pudore l'obbligavano a portare abiti da uomo civile. Ma se fino ad allora li aveva conservati per abitudine, ora provava attraverso la disperazione il valore di quell'armatura di lana e di tela con cui la società umana lo teneva avvolto fino a un momento prima. La nudità è un lusso che solo l'uomo caldamente attorniato dalla moltitudine dei suoi simili può offrirsi senza pericolo. Per Robinson, fino a quando non avesse cambiato anima, era una prova mortalmente temeraria. Spoglia di quelle povere vesti – consunte, lacere, imbrattate, ma nate da molti millenni di civiltà e impregnate di umanità –, la sua carne era offerta vulnearabile e bianca all'infuriare degli elementi bruti. Il vento, gli spini, le pietre e perfino quella luce spietata accerchiavano, aggredivano e straziavano una preda indifesa. Robinson si sentì morire. Quale creatura umana era stata mai sottoposta a una prova tanto crudele?”
(Michel Tournier, “Venerdì o il limbo del Pacifico”, pagg. 32-33)

Mens sana in corpore sano. Quanti si rendono conto che non si tratta di un semplice complemento di luogo, bensì di una relazione causale?

Schiaccia e finocchiona. Il bouquet dei sapori estivi è quasi completo.

Non abbiamo TV: per scelta. La connessione è limitata dalla lentezza del mio computer e dalla limitata banda del wireless offerto dal campeggio. Pochi vestiti, pasti essenziali, spazi abitativi spartani, molta aria aperta. La costa, qui, è quasi sempre ventilata.
La patina della civiltà poco a poco si assottiglia. La mente comincia a levigasi, i pensieri si fanno più precisi.

“Qui non si tratta soltanto di sopravvivere. Sopravvivere equivale a morire. Occorre costruire, oganizzare, ordinare, pazientemente e senza tregua. Ogni fermata è un passo indietro”.
(Michel Tournier, ib., pag. 52)

“Oggi mi accorgo di quanto sia folle e malvagio chi calunnia questa istituzione divina: il denaro! Esso spiritualizza tutto quello che tocca dandogli una dimensione razionale – commensurabile – e nello stesso tempo universale – poiché un bene calcolato in denaro diventa spiritualmente accessibile per tutti gli uomini. La venalità è una virtù cardinale: l'uomo venale sa far tacere i propri istinti omicidi e asociali – senso dell'onore, amor proprio, patriottismo, ambizione politica, fanatismo religioso, razzismo – per lasciar parlare soltanto la propensione a cooperare, il gusto degli scambi fruttiferi, il senso della solidarietà umana. L'espressione età dell'oro va presa alla lettera, e ben vedo che l'umanità la raggiungerebbe rapidamente se alla sua guida vi fosseo soltanto uomini venali. Disgraziatamente, son quasi sempre uomini disinteressati quelli che fanno la storia, ed ecco il fuoco distruggere tutto, ecco il sangue scorrere a fiotti. I grandi mercanti di Venezia ci dànno l'esempio della felicità fastosa di uno Stato guidato dalla sola legge del lucro, mentre i lupi famelici dell'Inquisizione ci mostrano di quali infamie siano capaci gli uomini che hanno perduto il gusto dei beni materiali. Gli unni si sarebbero in breve fermati nella loro rovinosa irruzione, se avessero saputo profittare delle ricchezze conquistate. Appesantiti da queste si sarebbero stabiliti per goderne meglio e le cose avrebbero ripreso il suo corso naturale. Ma erano bruti disinteessati che disprezzavano l'oro. E si precipitavano sempre avanti, bruciando tutto lungo il loro passaggio.”
(ib., pp. 62-63)

“Venerdì o il limbo del Pacifico” è una riscrittura del “Robinson Crusoe”. Giuro che non l'ho scelto di proposito (il libro dormiva sullo scaffale da anni, da dove l'ho prelevato in base a un richiamo impellente, che ormai non tento nemmeno più di spiegarmi), ma è una lettura marina, singolarmente adeguata all'estate.
Per inciso: sempre più considero Tournier uno dei grandi del Novecento, soprattutto per come riesce a coniugare una forma all'apparenza tradizionale con la sperimentazione più raffianta, la concretezza realistica con la più ardua speculazione filosofica e la più febbrile elaborazione fantastica.
Forse il romanzo ha ancora frecce al suo arco e il secondo Novecento l'ha dichiarato morto troppo prematuramente. Di suo ho letto “Gilles e Jeanne” e “Il re degli ontani”, e dopo questo già mi aspetta “Lo specchio delle idee”.
Capisco anche perché Calvino amasse Tournier (è tramite suo che l'ho scoperto), e in particolare questo romanzo. Il Robinson di Tournier è l'eroe dell'esattezza geometrica contro la natura molle e avvolgente dell'isola tropicale. Tema calviniano quant'altri mai (vedi G. C. Ferretti, "Le capre di Bikini").

“Quel concetto di profondità di cui non avevo mai pensato a esaminare l'uso che se ne fa in espressioni come 'una mente profonda', 'un amore profondo'... Strano patito preso che valorizza ciecamente la profondità a scapito della superficie, pretendendo che 'superficiale' significhi non già 'di vasta estensione', ma 'di poca profondità', mentre invece 'profondo' vuol dire 'di gande profondità' e non 'di superficie ristretta'. Eppure un sentimento come l'amore si misura, mi sembra – ammesso di poterlo misurare – molto meglio dall'importanza della sua superficie che non dal suo grado di profondità. Così misuro il mio amore per una donna dal fatto che amo egualmente le sue mani, gli occhi, il passo, le vesti consuete, gli oggetti familiari, quelli che tocca di continuo, i paesaggi dove l'ho veduta muoversi, il mare dove ha preso il bagno... Tutto ciò è superficie, mi sembra! E invece un sentimento mediocre mira direttamente – in profondità – soltanto al sesso, lasciando tutto il resto in una penombra indifferente”.
(Michel Tournier, ib., pag. 69)

Ore quindici. Il cielo è diviso esattamente a metà. Sopra di noi e verso sud c'è una giornata estiva completamente serena, mentre verso nord-est il cielo è plumbeo ed emette minacciosi brontolii di tuono. Il confine tra le due metà coincide con il lato estremo della grande insenatura a semicerchio su cui si distende la spiaggia, e in particolare con l'alto e scosceso sperone di roccia che la delimita a nord, coperto i pini e di enormi agavi, sulla cui sommità sorge una vecchia casa (forse una villa? non l'ho mai capito) dotata di una sorta di tozzo torrione, che a me ha sempre fatto venire in mente la casa dei doganieri di Montale (“sul rialzo a strapiombo sulla scogliera”).

Il contatto diretto della pelle con la sabbia, senza il filtro dell'asciugamano, senza le palafitte delle sdraio. I bambini lo fanno naturalmente, per gli adulti serve uno sforzo razionale, in senso uguale e contrario alla trazione esercitata dalle abitudini civilizzate.

L'ozio affina i pensieri. L'otium.

Temporale improvviso, accompagnato da sole e frinire di cicale. Torniamo al bungalow e ne approfittiamo per un giretto in bici per il campeggio.

La stanchezza che si sente dopo una giornata di mare. Un particolare tipo di stanchezza. Non quella nervosa e anchilosante di un giorno lavorativo, piuttosto un torpore diffuso, languido, odoroso di sale. La doccia lo trasforma in un placido invito a sprofondare nel sonno.

Vabbè, noi italiani saremo mammoni. Ma voi ce lo mandereste un bambino di sei anni a prendere l'acqua alla fontana, da solo, di sera, con il buio? Che poi si perde e piange disperato, povera creatura.

Per qualche strano motivo, suonare la chitarra, che strimpello atrocemente, mi dà più piacere che non suonare il pianoforte, strumento dal quale – con un po' di impegno – riesco a tirar fuori qualcosa di vagamente ascoltabile.

domenica 27 luglio 2014

l'ordine antico delle stagioni

Io credo che ognuno si ricordi avere udito da' suoi vecchi più volte, come mi ricordo io da' miei, che le annate sono divenute più fredde che non erano, e gl'inverni più lunghi; e che, al tempo loro, già verso il dì di Pasqua si solevano lasciare i panni dell'inverno, e pigliare quelli della state; la qual mutazione oggi, secondo essi, appena nel mese di maggio, e talvolta di giugno, si può patire.

[...]

Ma i vecchi, riuscendo il freddo all'età loro assai più molesto che in gioventù, credono avvenuto alle cose il cangiamento che provano nello stato proprio, ed immaginano che il calore che va scemando in loro, scemi nell'aria o nella terra. La quale immaginazione è così fondata, che quel medesimo appunto che affermano i nostri vecchi a noi, affermavano i vecchi, per non dir più, già un secolo e mezzo addietro, ai contemporanei del Magalotti, il quale nelle Lettere familiari scriveva: "Egli è pur certo che l'ordine antico delle stagioni par che vada pervertendosi. Qui in Italia è voce e querela comune, che i mezzi tempi non vi son più; e in questo smarrimento di confini, non vi è dubbio che il freddo acquista terreno. Io ho udito dire a mio padre, che in sua gioventù, a Roma, la mattina di pasqua di resurrezione, ognuno si rivestiva da state. Adesso chi non ha bisogno d'impegnar la camiciuola, vi so dire che si guarda molto bene di non alleggerirsi della minima cosa di quelle ch'ei portava nel cuor dell'inverno". Questo scriveva il Magalotti in data del 1683. L'Italia sarebbe più fredda oramai che la Groenlandia, se da quell'anno a questo, fosse venuta continuamente raffreddandosi a quella proporzione che si raccontava allora.

Giacomo Leopardi, Pensieri (1845), XXXIX

diario toscano - primo giorno

26 luglio 2014 – Partenza

Mattina.
“Sta' come torre ferma, che non crolla / già mai la cima per soffiar di venti”.
E io sto. Il vento ha soffiato, tutta la notte, anzi continua ancora. A dirla tutta, ha proprio diluviato, a secchiate. Il piazzale, appena spazzato, è di nuovo pieno di foglie cadute. Nuvoloni gonfi e iracondi si inseguono per il cielo. Ma io sto.
Stamattina Lorenzo ha vomitato, quattro volte. Una a letto sulle lenzuola, due sul divano, una sul tappeto. Ma noi (resi)stiamo.
Non si dica che i Pasquandrea si sono arresi davanti ai virus e alle alte pressioni cicloniche.
S'ha da partire, e si partirà.
Punta Ala, here we come.

Mattina, un po' più tardi.
Primo Teorema del Contenitore.
Dato un recipiente qualunque di volume A, il valore del suo contenuto sarà sempre pari ad A + x.

Primo Corollario, o Regola di Fulvio
Quale che sia la dimensione di un bagagliaio, quelle del bagaglio lo supererà sempre di almeno 1 unità.

Secondo Corollario, noto anche come ricorsività del teratonimo.
Il caricamente di un'automobile alla partenza per le ferie provocherà l'occorrenza di almeno un termine estratto dall'insieme “Nomi di esseri sacri”, accompagnato da un'apposizione appartenente all'insieme “Nomi di animali”.
Esempi: “Bacco capriolo”, “Visnù micetto”, “Odino ornitorinco”, o simili.

Terzo Corollario
Appena inventano il teletrasporto, io sarò il primo acquirente.

“Mamma, guadda, ho pleto una macchina della politia per integuile i ladli!”
“No, mamma, senti, io ho più fantasia. Ho preso tre Barbie, Ken e la Puffetta. Se c'è un pericolo, le difende Ken. Se il pericolo è grande, le difende la Puffetta. Se il pericolo è enorme, le difendono Ken e la Puffetta insieme”.

Primo pomeriggio
“Mamma, lo tai? Mangiando la patta, mi ti sono allunghiti un po' i piedini”.

Ore 15,30 circa
Che cosè questo groviglio di minuscole membra intrecciate sul muro?
Mi avvicino: è un ragnetto (un ragnetto minuscolo, lungo pochi millimetri, con l'addome nero, tondo e lucido come una biglia*) che si sta pappando beatamente una formica.
Provo a soffiare e il ragno si allontana spaventato, ma solo di pochi centimetri, e tenendo sempre sott'occhio il suo pasto. Che riprende dopo pochi secondi.

* Apprendo da Wikipedia che si chiama Euryopis, genere Teridiidae, 
predatori specializzati delle formiche.

Pomeriggio
Le Crete, colline grigiastre scavate dalle isoipse dei solchi. La grana di questa terra è inconfondibile, secca e ruvida, la riconoscerei tra mille. Mi ricorda il paesaggio del Guidoriccio da Fogliano di Simone Martini. Anche la vegetazione sembra condividere la stessa scabra scontrosità.

Superata Siena, il Tomtom partorisce una delle sue idee balzane. Invece della comoda strada che ci porterebbe a Grosseto e poi, lungo l'Aurelia, fino a Follonica, ci spedisce dritti nel bel mezzo della Maremma.
Attraversiamo pianure orlate da cieli gipiani (si dirà “gipiani”? ), poi paesini dai nomi pittoreschi (Volte Basse, Sovicille, Pian dei Mori, Malignano, Boccheggiano, Chiusdino), quindi alte colline ricoperte da boschi maestosi, apparentemente impenetrabili, di un verde quasi fosforescente.
Costeggiamo San Galgano, ma essendo in ritardo sulla tabella di marcia decidiamo di vederla al ritorno.

Ore 18,00
Nel momento esatto in cui varchiamo la soglia del campeggio, il mio cellulare si rompe. Morto, senza speranza.
Se questo non è un segno del destino...

Ore 18,30
“Papà, petté invece di abitale nella nostla bella catetta, tiamo venuti qua?”

“Mamma, io pensavo di divertirmi di più venendo qui.”

Ore 19
Quel momento in cui, appena arrivato, tutti sono in costume, tranne te.
Per fortuna, subito dopo il cielo si oscura e scoppia un temporale. Tiè.

Ore 21
“Eli, guarda che fligo piccolo!”
“È un cucciolo, deve ancora crescere.”
“Ma i flighi non mangiano!”
“Sì, mangiano le bottiglie.”

Ore 23
– Taglia e volta la prima carta, – gli disse.
Poi si lasciò ricadere sulla poltrona e aspirò una boccata dalla pipa di porcellana.
– È il Demiurgo, – commentò. – Uno dei tre arcani maggiori fondamentali. Rappresenta un giocoliere in piedi davanti a un banco coperto di oggetti eterocliti. Cosa significa? In te c'è un organizzatore che lotta contro un universo in disordine sforzandosi di dominarlo con mezzi di fortuna. Sembra riuscirci, ma non dimentichiamo che questo demiurgo è anche un giocoliere: la sua opera è illusione, illusorio il suo ordine. Disgraziatamente, lo ignora. Lo scetticismo non è il suo forte.
Un urto sordo scosse la nave, mentre il fanale accusava un angolo di quarantacinque gradi con il soffitto.
[…]
– Un ordine fatto a tua immagine, – ripetè con aria pensosa. – Nulla può farci penetrare l'anima di un uomo come immaginarlo investito di un potere assoluto grazie al quale può imprre senza ostacolo la propria volontà. […] Sei pio, avaro e puro. Il regno di cui potrai essere sovrano dovrebbe rassomigliare a quei nostri grandi armadi di casa dove, da noi, le donne ripongono pile i lenzuola e di tovaglie immacolate e profumate di sacchetti di lavanda. Non ti adirare. Non arrossire. Ciò che ti dico potrebbe mortificarti solo se tu avessi vent'anni di più. Sta di fatto che hai tutto da imparare. Non arrossire e scegli un'altra carta...
(Michel Tournier, “Venerdì o il limbo del Pacifico”, Einaudi 1983, pp. 9-10)

Mezzanotte
Ecco, questa me l'ero scordata: il chiù.
Ogni sera, è lui a darci la buonanotte, con la sua unica nota acuta e monotona.

sabato 26 luglio 2014

cronache familiari: aspirazioni

"Lorenzo, lo sai che quest'anno torniamo allo stesso campeggio dell'anno scorso? Te lo ricordi?"
"Tì."
"E ti ricordi che avevi fatto amicizia con quei due bimbi tedeschi, Michael e Talli?"
"Tì."
(...)
"Papà..."
"Che c'è?"
"Da glande, voio ettele tedecco."

venerdì 25 luglio 2014

palinodia


Se uno fosse una persona intera
non scriverebbe poesie
non lascerebbe in giro
scaglie di sé.

Se uno non scrivesse poesie
raccoglierebbe unghie e capelli
come mia nonna buonanima
raccomandava sempre

(lei diceva contro il malocchio
ma anche metaforicamente
non aveva poi tutti i torti).

giovedì 24 luglio 2014

anche di là (tre poesie di Vera Lúcia de Oliveira)

sai dire se anche di là c'è vita?
se anche di là bisogna nascere e morire
lottare per il pane faticare per l'amore
logorarsi per non perdersi? io qui
mi sono stancato se parto qualcuno
mi deve pur garantire che non
dovrò ricominciare daccapo

* * *

disse che da grande sarebbe diventato un bandito
che avrebbe ammazzato tutte le persone che lo avevano maltrattato
che sua madre era una puttana che lo aveva abbandonato
che suo padre era un ubriacone
che lui aveva famiglia ma odiava tutti
che lui avrebbe ammazzato anche il nonno
se fosse stato ancora vivo
perché lo aveva cacciato di casa
si appoggiava al portone ci guardava con rabbia
che se lui non moriva prima avrebbe sparato su tutto
quanto si muoveva come nel film che aveva
visto in televisione

* * *

parlare è diminuire
colare la pioggia in un secchio d'acqua
togliere un pezzo alla cosa
per metterla in noi
o togliere pezzi di noi
(per cosa?)


Vera Lúcia de Oliveira

mercoledì 23 luglio 2014

cronache familiari: soluzioni a portata di mano

Eli: "Lorenzo, andiamo a fare una passeggiata con le bici?"
Lori: "Ma io poi mi ttanco!"
Eli: "Non ti preoccupare! Se ti stanchi, le bici le appioppiamo alla mamma..."

martedì 22 luglio 2014

miiiinchia, il gezz!

Confesso: ho sempre trovato Renzo Arbore sostanzialmente simpatico. Le sue trasmissioni, con la loro allegria caciarona, hanno portato aria nuova nella TV italiana, e l'uomo ha senza dubbio una cultura musicale superiore alla media dei suoi colleghi (non che ci voglia molto, ma vabbè). Anche la sua musica – che sia ggezz o canzone napoletana o una delle solite goliardate – può riuscire gradevole, se la si prende per quello che è, nella sua simpatia macchiettistica.
Il problema è quando una macchietta viene elevata a metrapensé. E la gente, poi, gli dà retta.
Ad esempio “Da Palermo a New Orleans... e fu subito jazz” è, senza mezzi termini, una porcata. Perché pretende di demolire in un solo colpo, a suon di battutine, disinformazione, mezze verità e falsi ideologici, decenni di seria ricerca musicologica, che hanno dimostrato l'enorme e sostanziale apporto afroamericano alla musica del Novecento.
Su "Tracce di jazz" comparirà, ogni lunedì a partire da questa settimana e a cadenza bisettimanale, un lungo saggio di Gianni Morelenbaum Gualberto sull'argomento (qui la prima puntata e qui una sua lettera comparsa a suo tempo sul Correre della Sera). Non sto a spiegarvi chi è Gualberto: vi dico solo che è un uomo dal carattere pieno di spigoli, ma anche uno studioso dalla competenza sconfinata per estensione e profondità, una vera enciclopedia vivente in ogni campo della musica – e non solo.
Il problema è: quanta gente darà ascolto alle fanfaronate di Arbore, e quanta alle argomentazioni di Gualberto? Lo so, è una domanda retorica, ma io che ci posso fare?

lunedì 21 luglio 2014

a concise and practical guide to constructive dialogue

Visto che l'argomento sembra d'attualità, propongo un semplice e pratico template per una discussione-tipo sul tema "Israele e Palestina".
Tutto ciò che dovete fare è scegliervi il vostro ruolo (A o B) ed elaborare sul canovaccio già fornito.

A - Hamas ha provocato Israele lanciando razzi.
B - Sì, ma Israele ha segregato i palestinesi a Gaza.
A - Sì, ma quelli di Hamas sono terroristi.
B - Sì, ma perché Hamas ha tanto sostegno? Perché Israele ha esasperato i palestinesi con l'apartheid.
A - Sì, ma perché l'autorità israeliana non isola Hamas?
B - Sì, ma anche a Israele fa comodo Hamas come pretesto...

...continuare ad lib. fino a:

A - Sì, ma la fondazione di Israele è stato un atto illegale.
B - No, è stato legale perché sancito dall'ONU e sono stati gli arabi ad attaccare.

...elaborare sul punto precedente, poi passare al successivo:

B - Tu sei contro Israele, quindi sei un antisemita come Hitler.
A - No, tu sostieni gli israeliani che sono peggio di Hitler.

In genere, questa fase è abbastanza breve, poi si passa agli insulti.
Qui non do consigli, perché ritengo il lettore medio già sufficientemente ferrato.

Se si vuole procedere a uno step ancora successivo, si possono prendere parecchi utili spunti a questo link.

domenica 20 luglio 2014

lonely woman


Questa goccia d'acqua non ha fretta
di raggiungere il polso
per ora è ferma a mezza strada
sull'avambraccio ma uno ad uno
aggirerà gli ostacoli. Bisognerebbe
prendere esempio – pensavo – l'intenzione
è il nostro peccato originale.
Pensavo anche che allo stesso
modo si comportano le lacrime
non hanno mai fretta arrivano
e non c'è niente da fare – davvero
niente – soltanto
la gelida pietà delle pareti nude.
Se fossi lì – pensavo – le mie labbra
forse basterebbero – la lama
sfiorerebbe soltanto la pelle.
Spero nella tua fiamma
nel fuoco fermo delle tue pupille
in questo laccio sottile di parole.

sabato 19 luglio 2014

lampi - 250



La cosa giusta da fare è, come sempre, la più semplice.
(E la più difficile).

venerdì 18 luglio 2014

mi si nomina...

...e dove, e da parte di chi.
A me cominciano a tremare un po' le vene dei polsi.



dal Manifesto di martedì 15 luglio 2014, pagina 13

(per ingrandire, cliccare con il tasto destro
e aprire in una nuova scheda)

giovedì 17 luglio 2014

non ci è dato di sapere (quattro poesie di Greta Rosso)

all’improvviso c’è questo muro, color oliva,
e non ci è dato sapere se il colore sia il suo
effettivo o se si tratti piuttosto di una strana
combinazione di luci e stagioni a comporre
questa tinta, questo muro, dicevamo, dove
l’intonaco sboccia in fiori i cui petali l’umidità
apre con poco garbo ma grande riuscita
scenica, e vicino a questo aprirsi e sfiorire
dell’intonaco un viso di ragazzo s’appoggia
colmo di ansia, la camicia molto in ordine,
mentre origlia una discussione che preferirebbe
non lo riguardasse. il fermento gli accorcia
il fiato. le mani sudate. lo sguardo fisso su
un paralume macchiato. vorremmo che non
ascoltasse, o che almeno potessimo sentire
anche noi.

* * *

questi fiori in forma di polmoni, innesti
appena disegnati, la casa colonica, le
finestre annoiate e prive di speranza,
le spoglie decise dell’inverno, fuoco
minuto nell’incavo che scavo fra le
braccia, il tuo piccolo cranio da accarezzare-
ti muovi piano sulle scenografie divelte,
mi lasci un colore, una forma, un
tavolino basso, le orme delle tazze-
non esiste il mondo così come possiamo
viverlo. esiste un appena di voce, sulle
verande appassite

* * *

si ferma con la mano a mezz’aria
come un mida incerto
quasi presentisse
che una carezza a giugno
è un crimine mal riposto
con i morti che superano i nati
e l’egoismo del caldo che torna.
poi la mano scende
cala con un’accelerazione inattesa
sbattendo forte lo strofinaccio
contro il parapetto di cemento.
i veicoli del pensiero
hanno sgomberato il vicolo sottostante
non restano che i ciottoli
e i fiocchi grigiastri morbidi della polvere.
nel pieno dell’immaginazione,
nel vuoto della parola

* * *

sposami a pranzo
fammi una crociata color ciclamino
una brigata fenomenale
piena di ragazzotti sorridenti
che mi chiamino sorellina
dimmi che finiranno le guerre
piantami gerani e oleandri in alaska
regalami un mastroianni trentenne e luminoso
una mondina occhi belli
ma prima di tutto levami
questa poesia di sepsi
dalle mani

altri testi li trovate qui

mercoledì 16 luglio 2014

alba



Amore mio, nei vapori d'un bar
all'alba, amore mio che inverno
lungo e che brivido attenderti! Qua
dove il marmo nel sangue è gelo, e sa
di rinfresco anche l'occhio, ora nell'ermo
rumore oltre la brina io quale tram
odo, che apre e richiude in eterno
le deserte sue porte?... Amore, io ho fermo
il polso: e se il bicchiere entro il fragore
sottile ha un tremitìo tra i denti, è forse
di tali ruote un'eco. Ma tu, amore,
non dirmi, ora che invece tua già il sole
sgorga, non dirmi che da quelle porte
qui, col tuo passo, già attendo la morte.

Giorgio Caproni
(da "Passaggio d'Enea, 1948)






"A Roma, verso la fine del 1945. Ero in una latteria, solo, vicino alla stazione, 
e aspettavo mia moglie Rina che doveva arrivare da Genova.  Una latteria 
di quelle con i tavoli di marmo, con le stoviglie mal rigovernate  che sanno 
appunto di 'rinfresco'. Mia moglie non poteva stare con me a Roma 
perché non trovavo casa  e dovevo stare a pensione. Erano anni tremendi".

(Giorgio Caproni, intervista del 1981, da "L'opera in versi")

martedì 15 luglio 2014

il cuore umano del contrabbasso (per Charlie Haden)



Venerdì scorso, 11 luglio 2014, se n'è andato, a settantasei anni, Charlie Haden.
Non sto a spiegarvi chi era, tanto di necrologi sul web ce ne sono a bizzeffe. Vi risparmio coccodrilli, discografie consigliate e memorie personali. Lascio la parola ad altri.
I più fedeli tra i miei ventiquattro lettori ricorderanno che tempo fa mi ero cimentato in qualche prova di traduzione dello splendido romanzo jazz di Rafi Zabor "The Bear Comes Home". Bene, nel libro compaiono diversi personaggi reali, tra i quali Haden, protagonista di una delle sequenze più estese e più riuscite: quasi quaranta pagine, che descrivono una lunga seduta di registrazione.
Ne traduco qui sotto due brevi estratti.
So long, Charlie.

* * *

Mentre l'Orso si faceva stada nel corridoio, osservava la scena come se stesse esplorando il posto in cerca di pericoli. Non si vedeva nessuno. Un tizio magro, dall'aria allarmata, con una camicia a quadri, capelli ben tagliati e barba, azionava un cursore su un pannello di controllo che sembrava la plancia di comando dell'Enterprise, e il suono del contrabbasso di Charlie Haden arrivava dagli enormi altoparlanti attaccati al muro, sopra la finestra panoramica che si apriva sulla sala di registrazione. L'Orso si curvò per guardare dalla finestra – era posta un paio di scalini più in basso del pannello di controllo – nello studio e vide Charlie Haden curvo sul suo strumento – un contrabbasso francese, si accorse l'Orso, del tardo diciottesimo secolo. Vide la batteria di Billy [Hart] in un gabbiotto dietro Haden, dall'altra parte della grande sala rivestita di legno di pino, dall'asimmetrica forma ottagonale – c'era talmente tanto legno grezzo che l'Orso poteva sentirne l'odore così chiaramente da sapere che non era soltanto pino – distingueva almeno due altre distinte linfe ma non poteva dar loro un nome con tutto quel poliuretano di mezzo, e poi lui era un orso di città e non conosceva abbastanza nomi di alberi. Cercò con lo sguardo Billy, ma il batterista non si vedeva da nessuna parte.
“Mi chiamo James”, disse il tecnico del suono, guardandolo in su dal pannello di controllo. “Sto controllando un po' di livelli”.
“Ciao”, disse l'Orso. “ Anch'io”. Adesso si sentiva abbastanza a suo agio da ascoltare ciò che faceva Haden. Il contrabbassista stava scendendo ciclicamente con una serie di triadi, la tonica pefettamente intonata e le note superiori rese infinitesimamente crescenti, per dare agli accordi un tono indagatorio. Quando Haden fu arrivato al fondo del ciclo, staccò una di quelle sue note basse che sembravano arrivare dal nocciolo terrestre e la piegò con un potente lavoro di dita, finché la nota si inarcò in una tale bellezza da devastare il cuore di un Orso ormai completamente assorto. L'Orso non poteva quasi credere di stare davvero per suonare con lui.
“Ehi, man”, la voce di Haden gli arrivò dagli altoparlanti. L'Orso aprì gli occhi e vide Haden che gli sorrideva dietro il vetro. “Hai già ucciso qualcuno oggi?”
“È ancora presto”, disse l'Orso.
“Eh?”
“Aspetta, ti apro un microfono”, disse James dalla sua postazione.
“Nah”, disse l'Orso, spinse la pesante porta della sala di controllo e avanzò lentamente nello studio vero e proprio. Haden stava inclinando delicatamente il suo contrabbasso su un fianco, appoggiandolo su un rettangolo di tappeto. Il contrabbassista lo guardò dal basso in alto e sorrise.
L'Orso aveva visto un sacco di persone venirgli incontro nel corso degli anni, ma nessuno l'aveva fatto come Charlie Haden. Di solito, specialmente ai primi tentativi, c'era qualcosa di terrorizzato in loro, che fosse o no coperto dall'ironia o dalla spavalderia, ma Haden, così come alla prova dell'altro giorno, gli venne incontro in maniera più semplice di quanto qualunque altro umano avesse mai fatto, con un sorriso socievole che gli ammorbidiva i lineamenti e uno sguardo di interesse negli occhi. Haden sporse la mano e l'Orso la prese saldamente con la zampa.
“È davvero un piacere vederti, man”, disse Haden con la sua ondeggiante voce di tenore.
“Non sono...” cominciò a dire l'Orso, il suo solito riff, ma poi lasciò perdere. “È bello essere visto. Voglio dire è bello vederti. Tutti e due. Insomma”. Haden era una delle poche persone che avesse mai conosciuto, ad avere il potere di disarmarlo in modo più o meno totale.
Sbrigati i preliminare, Haden concesse a un ghigno diabolico di sbucare e distendersi sui suoi lineamenti. “Ho suonato con un sacco di animali, man, ma questa è veramente la prima”.
L'Orso si unì alla sua risata senza pensarci due volte. Il nostro primo duetto.
All'improvviso Haden fu preso da un pizzico d'ansia. “Non volevo intendere niente di offensivo”.
“No, va bene”, gli disse l'Orso. “Ho capito. So che cosa volevi dire”.
“Avevo paura, ehm, di aver fatto quello che si potrebbe definire un'affermazione umanista”.
L'Orso fu costretto a ridacchiare. “È la prima volta che sento questa parola usata in quel senso”, disse.
“Beh, non sarà l'ultima”. Haden annuì con una certa serietà meditativa.

[...]

“Buono”, disse Hatwell. “Siamo già più o meno a metà del disco”.
“Charlie”, chiese l'Orso. “E se suonassimo un duo su qualcosa di lento e poi ci prendessimo una pausa?”
“Buffo”, rispose Haden. “Dopo aver quasi fatto quella prova, l'altro giorno, ho scritto una ballad per te nella mia camera d'albergo. Vuoi darci un'occhiata?”
La suonarono insieme, dopo tre false partenze in cui l'Orso non riusciva a trovare il modo migliore per fraseggiare la melodia scritta da Haden. Una volta che si fu sciolto per bene, l'Orso si lasciò blandire dal lirico tocco di Haden sulle corde fino a mari più profondi di quelli che attraversava di solito. Ogni volta che l'Orso suonava una melodia, Haden trovava sul contrabbasso qualcosa di più grande da dire al proposito e l'Orso doveva sottomettersi all'autorità di ciò che gli veniva proposto. Haden lo circondava come un'orchestra di contrabbassi, adescava musiche sconosciute dalla sua luce vitale, lo costringeva ad acconsentire a una bellezza che stava oltre l'orlo dei suoi limitanti problemi momentanei. L'Orso suonava bene? Può darsi. Stava sui cambi d'accordo? In effetti, l'Orso pensava di sì. Quando l'Orso si fermò, Haden prese un assolo, accarezzando fuori dalle corde una ricchezza melodica che era un tributo alla bellezza del basso e alla sua profonda natura umana. Di conseguenza, quando Haden finì il suo assolo, l'Orso suonò il tema scritto da Haden con inusuale accuratezza e modestia, e tutto fu finito.
“Oh, man”, disse Haden dopo la necessaria pausa.
“Davvero?” disse l'Orso. “Era proprio così buono?”
Tutti erano d'accordo, perlomeno, che fosse ora di una pausa. Pareva che qualcuno avesse ordinato del cibo cinese e Charlie voleva assicurarsi che ci fossero abbastanza verdure. L'Orso voleva mangiare qualcosa?
“No”.
Parecchie persone uscivano per andare al bagno e alla macchinetta del caffè. L'Orso non voleva nulla di entrambi. Notò di non avere necessità fisiche: niente fame, nonostante non avesse preso niente dopo il caffè e le ciambelle della mattina, nessun bisogno del bagno nonostante i precedenti minacciosi gorgoglii e la quantità di caffè forte e nero che aveva ingoiato a colazione. Non sembrava avere alcun tipo di bisogno. Nemmeno alcuna emozione riconoscibile. Senza dubbio se non avesse dovuto suonare il sassofono non avrebbe nemmeno respirato.


lunedì 14 luglio 2014

"Amori dAmare": uscita e presentazione



Vi ho già parlato dell'antologia "Amori dAmare", in uscita per Minerva Editore.
Bene: l'opera, curata da Cinzia Demi, è pronta e disponibile e verrà presentata in anteprima a Cesenatico il 22 luglio prossimo. Io non so ancora se ci sarò, ma intanto ve l'ho detto.



Sono due volumi, indivisibili, per un costo complessivo di quattordici euro e novanta. Facciamo quindici, via. Sul sito dell'editore, potete averla con un paio di euro di sconto. Chi abiti nella saporita Romagna potrà trovarlo anche in edicola.
 


Last but not least, il ricavato dei volumi sarà devoluto in beneficenza.


domenica 13 luglio 2014

il lavoro indispensabile



Ikebana
(per Lucia)

Ci salverà la mano
che ha compiuto – in silenzio
il lavoro indispensabile
ha sottratto alla notte
la sua preda – ha consegnato
al tempo la perfezione
effimera – una scheggia d'amore.




nell'immagine, un disegno mio: "Natura morta" (penna biro, 2014)
(qui l'originale)

sabato 12 luglio 2014

era qualcosa (quattro poesie di Nadia Agustoni)

era qualcosa nel freddo
il colore della nafta e cisterne
l’agonia dell’aria sui cancelli
- ma il cuore degli uomini se graziato
risponde con un mantra di sirene
di fabbriche e vento sporco -
e i camion sulla camionabile
coi clacson cantavano il purgatorio:
“Dante quassù avrebbe sognato
la fissione dell’atomo o Hiroshima”,
e di nuovo autostrade
un valico a nord ovest
con la terra azzurra
il cielo azzurro di Vicchio
e sopra l’Appennino,
nel temporale, quella luce
affrancata dal bene
così limpida.

* * *

amava la salvia sui terrazzi
il citofono di voci sgraziate
il buio d’afa nella cassetta
delle lettere:

i saluti arrivavano come stendardi
e passati di moda, internet
lasciava schegge più certe.

scriveva barchette di carta, aeroplani,
inventava un mappamondo
pianeti senza divieto.

* * *

in albergo baciava ragazzi e ragazze
coi polsi rotti e gli ossi che finivano in cima alle dita
quella melodia di prigioni di porte accese
da untori che a lui non bastava a lui
saliva la fame nei denti e sul letto
tra schiena e cuscino amava
nel rosso.

* * *

il mondo nelle cose

il mondo nelle cose fino alle parole. nei canali trovava detriti, un abbandono più duro della terra. l’acqua spinge a riva la sua poltiglia, sembrava che le mani cogliessero un inferno di palcia, un interminabile margine ai margini di un giorno dove vanno sfollati i piedi, dove calza scarpe di gomma, dove il vento insegna la paura. guardava il sole, un agosto di trattori, l’erba dove la statale comincia a prendere tutto, a portare via.


Nadia Agustoni
(da "Il mondo nelle cose", Lietocolle 2013)





qui una recensione di Stefano Guglielmin e altri testi

qui un'intervista all'autrice

venerdì 11 luglio 2014

ejercicios espirituales

Mi dico: sta male
e io non posso fare nulla per aiutarla.
È un pensiero semplice semplice
dovrebbe consolarmi
la sua assoluta necessità
perché ci sono frontiere di buio
che non potrei in nessun modo forzare – ci sono
incrostazioni di uovo dai piatti cupi
che attendono risoluzione
insomma non posso non posso davvero
fare nulla. Dove è lei probabilmente
la luce è ancora chiara
spero sia come qui quando arriva
dopo il polline e le foglie
perché quello posso farlo – se non altro
sperare. Oppure è ancora costretta
a scavarsi gli occhi nel grigio
a scacciare il freddo da un lato
all'altro delle mani.
Non posso saperlo non c'è possibilità
alcuna di collimare – come sempre del resto
come ogni volta che le braccia
interrompono il gesto i denti
si rimangiano la fame.
Ciò che è inevitabile
dovebbe consolare – così penso.
Non dovrebbe attraversarmi
così a fondo lo slargo delle costole
non dovrebbe alzare tanta polvere
né sfregare così forte sulle iridi.
Il mondo – mi dico – è fatto di cose
non di pensieri – è tutto lì fuori
disteso senza ordine ed è lì
che il suo respiro e il mio confinano.
Una sera me l'hai detto – era novembre
talmente caldo da contare in terrazzo
una sigaretta dopo l'altra – me l'hai detto
c'erano dieci ragioni
per il sì cinquanta per il no.
Sarebbe bello se tutto obbedisse.
Potrei esaurire i passi
uno per volta tradire finalmente
le abitudini.
A volte mi prende alla schiena
come l'aria fredda di un temporale
un odore che attraversa le stanze
in tutte le direzioni
ti sento correre come fai sempre tu
e come sempre non riesco a fermarti.

giovedì 10 luglio 2014

mercoledì 9 luglio 2014

in quale universo di ombre? (una poesia di Vittoria Bartolucci)





Provvisori paesaggi

Poi basta una nuvola
o un'ombra che prima non c'era
o un pullman che passa
il fumo che sale da una fabbrica a monte
l'impercettibile volo
di un insetto o di altro
un oggetto spostato o un'assenza
e non è più
quello di prima
un paesaggio qualunque della nostra esistenza
Poi basta un'idea
che attraversa la mente
un sorriso una piccola ruga uno sguardo
un movimento del collo
e non è più
quello che era
il viso che stiamo guardando o sognando
Poi basta che vari di poco
il tono
di una voce che parla
l'intensità di un suono o un rumore
perché sia diversa
la sensazione che stiamo provando
E quando un unico flash
nei nostri sensi
ne rimane impigliato
e a volte nel ricordo ritorna
a volte su un foglio di carta
un pentagramma una lastra
un blocco di pietra...
cristallizza una mano
in quale universo di ombre
svaniscono gli altri
senza memoria?
 

Vittoria Bartolucci


nell'immagine: un disegno dell'autrice

martedì 8 luglio 2014

preterizione

Oh, no, I said too much
I haven't said enough...
(R.E.M., "Losing My Religion")



“Scusami un po' di tristezza – senza motivo” ti ho scritto
chissà se tu lo sapevi (quanto lo sapevo io)
di essere la tristezza di cui ti stavo parlando.
Ora mi credi se dico che non era una bugia
soltanto un falso bersaglio una goffa diversione
devo dirigere i muscoli verso un punto definito
per rendere tollerabile ciò che non può avere un nome.

lunedì 7 luglio 2014

robetta in uscita




Alcune mie poesie sono inserite nell'antologia "Poeti umbri contemporanei". Il libro, un voluminoso tomo di oltre 800 pagine, è in bozze finali e sarà disponibile a fine mese per le Edizioni Il Formichiere, Foligno.
(Sì, sono un poeta umbro, a quanto pare; non che la cosa mi dispiaccia, del resto. A proposito del "contemporaneo", preferisco non pronunciarmi).

Un mio racconto, intitolato L'ultimo volo di Chet, è inserito nell'antologia "AmoridAmare", di prossima uscita per l'Editore Minerva di Bologna, a cura di Cinzia Demi.
Sono previste presentazioni, vi farò sapere a breve dove e quando.

Infine, un mio breve testo, intitolato Notizie dalla città dei topi, è incluso in "Letteratura con i piedi", appena edito da Fara Editore, Rimini.
Si tratta del resoconto della kermesse omonima, tenutasi a Perugia lo scorso marzo.



(A proposito: non ricordo se ve l'ho mai detto,
ma una lista completa delle mie pubblicazioni
è disponibile qui.)

domenica 6 luglio 2014

certo che Gassman, a me, me fa un baffo

So bene che tutti i fedeli lettori di questo blog nutrono la segreta speranza di ascoltarmi declamare. Ebbene, eccovi accontentati.
Il video è stato registrato ad Avezzano (AQ) il 21 giugno 2014, durante la "Notte bianca delle librerie", a cura di Antonella Taravella del Words Social Forum e di Simonia di Profio del Vieniviaconme Lettere Caffè.
Gli altri poeti sono Antonella Taravella, Fernando Della Posta, Enzo Moretti e Sylvia Pallaracci.
Buon ascolto.


sabato 5 luglio 2014

cronache familiari: paleontologia

"Mamma, ma quando c'elano i dinotauli, io elo ancola nella tua pancia?"

venerdì 4 luglio 2014

paura (di Massimiliano Bardotti)

Cos'hai detto che fai per vivere?
Respiro.
Ah ok, fai il simpatico, no intendo che lavoro fai?
Lavoro su di me.
Imprenditore dunque? Libero professionista...
Se vuole vederla così.
Senti e... Donne? Ne hai?
Non possiedo nulla.
Ti piacciono gli uomini?
Alcuni li trovo divertenti.
Sei gay insomma.
Amo gli esseri umani, soprattutto quelli che disprezzo.
Sì, vabbè, senti e... Orientamento politico?
I Vangeli.
In che senso scusa?
Non serve altro.
Sì, vabbè, ultima domanda
No aspetti, l'ultima domanda la faccio io: chi sei?
Sono Roberto
No quello è solo un nome.
Lavoro per conto di
È solo una professione.
Faccio sport, ho successo con le donne, una l'altra sera l'ho fatta miagolare di piacere roba da non
Chi sei?
La domenica vado allo stadio
Chi sei?
Lavoro sodo per arrivare
Dove?
Per avere successo
Quale?
Non lo so, per essere rispettato
Da chi?
Dalla gente, dagli altri
E gli altri chi sono?
Non lo so, persone
Migliori di lei?
Non lo so
Si sforzi.
Alcune, forse
Perché vuole conquistare il rispetto di chi nemmeno conosce?
È piacevole.
È rassicurante. Lei ha paura?
Ce l'avevo.
Poi cos'è cambiato?
Ho fatto i soldi.
E la paura è scomparsa?
Sì.
Ci pensi bene.
Sì.
Lei ha paura adesso?
Sì.
Lei ha paura?
Sempre.
La nasconde?
Non la mostro, l'ho fatta sparire da qui dove possono vederla.
Possono?
Sì.
E lei?
Anch'io potevo vederla.
La riporti indietro. In quella paura troverà se stesso.
Ho paura di avere paura.
Bene, è sulla buona strada. Ha fatto il primo passo verso il fondo.

giovedì 3 luglio 2014

dunarobba



“Cinque millimetri all'anno”, dice la guida.
Io calcolo intanto – un metro in due secoli
millenni perché questo cemento color cenere
stringesse la morsa attorno ai tronchi
milioni perché questi corpi immensi
(non riesco a pensarli cadaveri: il legno profuma
di resina è ancora pasto appetibile per generazioni
di vespe nere) si ricongiungessero alla luce
e al vento che ora li consuma – briciola
dopo briciola. “Un essere vivente” spiega ancora
“è tale se reagisce agli stimoli” mostrando
un'estensione orizzontale (ramo? radice?)
l'ultimo spasimo dell'agonia. Fa molto caldo
il mio corpo traspira. L'erba calpestata
torna alla verticale. Non c'era l'uomo
– penso io stavolta – l'Erectus non aveva
abbandonato la culla africana. Molluschi
gasteropodi sono conservati nel museo.
“Ambiente salmastro” la didascalia “popolato
di libellule” – e aggiunge: “insetti tra i più
primitivi” – immutati fin dall'Ordoviciano
le ali incapaci a chiudersi in posizione di riposo
ancor oggi legati all'amnio acquatico
in ogni fase del ciclo vitale. (E dunque
da dove questa febbre – quest'entropia
questa fuga da sé?). Polvere rossa
ci raggiunge dalla fabbrica di laterizi.
La foresta svanisce poco a poco – la mano
incendiaria dell'Homo Sapiens è solo parzialmente
responsabile. Presto gli antichi giganti
saranno polvere infeconda – morta
perché viva mai trasmutata in lignite
mai consegnata all'eternità minerale.

(Non so se fosse martora o faina
l'abbiamo scambiata per gatto
chiedendoci perché rimanesse fermo
nel bel mezzo della carreggiata. Solo dopo
abbiamo notato la coda la zampa rattrappita
mentre riguadagnava a fatica le frasche
rivolgendoci un ultimo sguardo del tutto
privo di emozioni riconoscibili).


* * *


In località Dunarobba, presso Avigliano Umbro, provincia di Terni, è conservato uno dei più straordinari reperti paleontologici d'Italia: un'intera foresta di sequoie del Pliocene (circa 2 milioni di anni fa). Il sito è noto con il nome di "foresta fossile", peraltro scorretto: i tronchi non si sono fossilizzati, bensì, ricoperti di uno strato d'argilla proveniente da un vicino lago, si sono mummificati. Il legno è ancora tale e può persino bruciare (alcuni vandali, anni fa, ne incendiarono alcuni).
La foresta è stata portata alla luce circa trent'anni fa, grazie agli scavi effettuati da una vicina fabbrica di mattoni. Da allora, i tronchi sono andati incontro a un progressivo decadimento, che nessun intervento è mai riuscito a fermare, né tantomeno a rallentare.

mercoledì 2 luglio 2014

l'angolo di universo

Non si tratta soltanto
di misurare nel buio la pendenza
dei tuoi fianchi – e nemmeno
di accomodarmi nel calco di me
nascosto fra i tuoi seni.
Si tratta piuttosto di riconoscere
l'angolo di universo che mi aspettava
prima ancora che lo conoscessi
vedere con chiarezza
il punto di partenza quello d'arrivo
e tutto ciò che c'è nel mezzo
cogliere il tragitto in un unico
sguardo distendere il corpo
assecondare le curve e le deviazioni.

martedì 1 luglio 2014

di poesia (nonostante tutto)



"È straordinario l’appeal di cui il genere letterario poesia continua ancora a godere tra i giovani, malgrado i vari sbertucciamenti che prende da tutte le parti. Fino a Montale e a Luzi i senatori a vita venivano scelti anche tra i poeti. Oggi è ormai impensabile: dopo che Fernanda Pivano ha dichiarato che i veri poeti sono De André e Jovanotti, è evidente che i mass-media stanno seguendo quella linea. Negletta è quindi la poesia dei ragazzi che scrivono oggi per i Quaderni rispetto ai tempi miei, che già erano negletti rispetto ai tempi precedenti. Non c’è stata diminuzione qualitativa, ci tengo a ripeterlo: c’è stata invece una crescita della disattenzione, anche da parte della classe media, di quei notai e quei dentisti che fino a qualche generazione fa credevano di dover conoscere i nomi di almeno due, tre poeti viventi, e che oggi li ignorano bellamente a vantaggio dei cantautori. Pur essendo diventata la poesia sempre più un fenomeno autoreferenziale e di nicchia, è però straordinaria la pervicacia dei giovani nel continuare a praticarla, e a vedere nell’immagine di sé come poeta una forma di realizzazione o almeno di definizione."

[...]
Recentemente in un incontro a Roma con Mazzoni, Cortellessa, Ostuni, Ottonieri e Giovenale, si discuteva amabilmente della sparizione dell’io in poesia. E c’erano diversi giovani che ascoltavano assai attenti, molto interessati al tema. A tale proposito mi trovai a dire che il problema non è quello di sottolineare liricamente o cancellare sperimentalmente l’io in poesia: il problema è invece quello del soggetto, che cosa tu vuoi dire in poesia, dove e come ti “detta dentro”. [...] È il soggetto – quello che “mi detta dentro” – a far sì che si possa scrivere in modi tanto diversi. Personalmente non sono né un fautore della sparizione dell’io [...], né un fautore della presenza dell’io [...]. Che cosa è allora davvero importante? Non tanto l’esercitarsi a scrivere poesia con o senza l’io, ma decidere bene di che cosa vogliamo parlare, qual è il progetto che abbiamo in mente, che cosa – anceschianamente – vogliamo ottenere con un libro di poesia. Tutto il resto è ancillare, è orpello.
Stiamo tanto a parlare di un pronome, di qualche cosa che sta al posto di qualche altra cosa: ma non ce ne può importare di meno!

[...]

"Mi trovo a invidiare chi scrive poesia in lingua inglese e può pubblicare poesia sulla prima pagina di un giornale. Tony Harrison, per citare un amico, per anni è stato sulle prime pagine dei quotidiani inglesi scrivendo sui fatti del giorno, ma in poesia. È evidente che noi, con un percorso storico che viene da Bembo, e con la lingua che ci troviamo, non possiamo permettercelo."

 
(leggi tutta l'intervista a Franco Buffoni qui)