venerdì 31 luglio 2009

jazz people 4 - il guastatore semantico

Chissà che fine ha fatto il Guastatore Semantico. Una volta i suoi articoli si leggevano un po' dappertutto, e veniva spesso invitato anche a scrivere i testi dei booklet e le note di copertina per i cd di una casa discografica piuttosto conosciuta.
I suoi primi pezzi li lessi grazie all'amico Vincenzo, che me ne passò qualcuno durante un corso di giornalismo. Non lo ringrazierò mai abbastanza, per avermi offerto al contempo un infallibile antidepressivo, del tutto scevro di effetti collaterali, e un cristallino modello di come non si deve scrivere.
La caratteristica di GS era quella di attingere a un archivio – a dire il vero piuttosto limitato – di frasi preconfezionate e aggettivi multiuso. E fin qui niente di strano, dato che purtroppo la pratica è molto, ma molto diffusa. Ma quel che distingueva GS da tutti gli altri era che le frasi erano totalmente prive di senso e che lui le accostava in maniera rigorosamente casuale, con supremo sprezzo della sintassi e della coerenza.
Il risultato erano vere e proprie perle dadaiste, di cui riporto qualche esempio. Giuro che sono tutte autentiche.

Il brillante delineare con venusta spigliatezza e tersa freschezza d’esecuzione in un coordinato e crescente giustapporre felici prospettive sonore, dall’avvincente e luminoso rintoccare tra facondia e savoir faire, del pianista *** si schiude e spazia impressivo con magic touch e trascelto sciorinare nel cd “***”.

Il sound limpido e il periodare al contempo fantasioso e coordinato di *** al pianoforte, il protendersi corposo e propulsivo di *** al basso elettrico e il drumming ora diafano, ora scandito, di *** si integrano in un sodalizio in cui feeling ed efficacia si fondono con validi risultati in un percorso musicale a cavallo tra jazz elettrico e jazz acustico.

*** è un pianista dal fraseggio che si inoltra con continuità e coordinazione e che si protende con limpidezza di slancio in avanti e denota un sound cristallino; non dimeno è attento a mantenere, nella sua sensibilità jazzistica, un filo conduttore nello svolgimento delle sue improvvisazioni ed è pronto a piazzare “l’apertura” giusta al momento giusto. *** al basso si segnala per il sound elastico e dal corposo e definito risonare: ha un buon “tiro” e il suo periodare è raccordato e inanellato con coesione e sicura tenuta d’esposizione. Il netto e secco scandire di *** on drums vede dare, da parte di questo musicista, un’impostazione diretta ed efficace ai pezzi, ed altresì si rivela partecipe e pronto ad intervenire con diafano dinamismo nei momenti più jazzistici.

Con ben tornito brio, il sassofonista *** delinea e sviluppa efficaci scenari in jazz. Impegnato per lo piu' al sax alto, *** disegna con verve coinvolgenti spirali d'alea,con freschezza e un terso disegno sonoro, dall'accattivante inoltrarsi e accendersi, con determinazione e armoniosa continuità di sbocchi. Discorsivo e sgusciante, il periodare di *** si invola con crescente scioltezza e jazz feeling, con sound brillante e frizzante e in alcuni brani ospita il sound generoso e corposo di *** al sax tenore. Fine e descrittivo, fluendo con limpidi rivoli improvvisativi al sax soprano, al sax alto *** sciorina un fraseggio ben allineato e coerente, dall'avvincente e chiaro evolversi, e puo'contare sul dipanarsi e discorrere dei flussi improvvisativi di *** al piano e sul versatile supporto del pulsare partecipe del ben bilanciato sospingere di *** al contrabbasso e di *** alla batteria. *** si fa apprezzare per la coesione e la tenuta di conduzione dei suoi interventi, in cui amalgama scioltezza, inventiva e bellezza di linguaggio in un divenire d'alea compiuto e inebriante nel contempo.

Mi rimane però un dubbio: se GS fosse un sofisticato provocatore surrealista, oppure soltanto un tragico idiota.

giovedì 30 luglio 2009

in mano a un idiota

"Le Nuvole" fu il primo disco di De Andrè che comprai. Era il 1990, avevo 15 anni e c'erano ancora gli lp in vinile. Sulla copertina, la foto delle nuvole aveva un effetto di iridescenza poi sparito nella versione in cd.
Avevo scoperto De Andrè qualche anno prima, grazie a una compilation intitolata "Donna d'autore". Uscì nel 1987, era una raccolta di canzoni che avevano nel titolo nomi di donna ed è responsabile anche del mio innamoramento per De Gregori (c'era Alice: devo aggiungere altro?) e del mio rapporto di odio-amore per Battisti (Anna). C'erano anche Gianna di Gaetano, Agnese di Ivan Graziani, Wanda di Paolo Conte, Così non va Veronica di Bennato, e poi roba di Dalla, Ron, Baglioni, e ovviamente Margherita di Cocciante, che da allora cominciai a odiare.
Di De Andrè c'era la traduzione di Suzanne di Leonard Cohen.

"Le Nuvole", letteralmente, lo consumai a forza di ascoltarlo, anche se all'epoca molti dei testi mi suonavano misteriosi, criptici. Ma questo non mi impediva di sentirne l'enorme forza poetica.
Forse quella che capii meglio, allora, fu Don Raffaè.



Ovviamente era la canzone più esplicita e diretta, citava fatti di cronaca (le "Carceri d'oro", la Baggina, chi se le ricorda più oggi?) e c'era anche quella musica decisamente accattivante.
A poco a poco cominciai ad apprezzarne l'ironia, a capire come la canzone giocasse con tutti i luoghi comuni della napoletanità: o' ccafè, Cicerenella, la tarantella. De Andrè la cantava con una voce strascicata, che disegnava con meravigliosa efficacia il ritratto di un napoletano disilluso, arreso allo squallore, inconsapevole della sua stessa miseria morale. La sua massima ambizione era sistemare il fratello disoccupato e "fare presenza" al matrimonio, facendosi prestare il cappotto dal boss della camorra. "Don Raffaè", che ovviamente era, in filigrana, Cutolo. L'uomo "sceltissimo immenso", l'unica autorità morale riconosciuta, nel vuoto di uno Stato che "si costerna s'indigna s'impegna / poi getta la spugna con gran dignità" (passeranno due anni, e nel 1992 due esplosioni in Sicilia faranno capire che quello Stato stava tramando ben di peggio).
Insomma, un capolavoro di sottile, tragica ironia.
Ce n'è anche una versione live in duo con Roberto Murolo, che da quel gran signore che era ne dà un'interpretazione parlata, anzi sussurrata, tristissima.



Ora, mi domando: c'è un modo per distruggere questo capolavoro?
Certo che c'è: darla in mano a un idiota.
Uno che la fraintenda completamente. Uno che abbia l'idea folle di inserirci una penosa imitazione di Totò che fa la marionetta.
Insomma, uno che sia la personificazione proprio di quella napoletanità macchiettistica che la canzone mette in scena con disincantato distacco.
Guardate, e disperatevi.

back soon


Fino a lunedì sarò fuori per lavoro (per la precisione a Orsara Jazz, per chi si trovasse da quelle parti). I post usciranno in automatico (o almeno spero) ma non so se e quando potrò leggere i commenti e rispondere.
Voi però leggete e commentate, mi raccomando...

mercoledì 29 luglio 2009

George Russell

Cincinnati, 23 giugno 1923 - Boston, 27 luglio 2009.
Compositore, arrangiatore, teorico, didatta.
Uno dei grandi originali del jazz.
Grazie per tutta la musica meravigliosa che ci hai regalato.

profezia

Probabilmente De Andrè si sarebbe messo a ridere.
Quanto a me, l'ultimo mio desiderio è contribuire alla sua riduzione in santino, che mi pare sia già arrivata a uno stadio piuttosto avanzato.
Però, come si fa ad ascoltare questa canzone e a non pensare che quest'uomo, quasi vent'anni fa, ancora sulla soglia di quella discesa nel fango che sono stati gli anni Novanta, aveva già capito tutto?
Perché c'è già tutto: la morte degli ideali, la volgarità imperante, le conversioni e le autoassoluzioni, la tragedia mascherata a festa, la "pace terrificante" che oggi stiamo vivendo.
Una sola cosa è sbagliata: gli ultimi versi. Il cuore d'Italia non si è levato, nessuno ha protestato, e nessuno sembra intenzionato a farlo.



La domenica delle salme
(da "Le Nuvole", 1990)


Tentò la fuga in tram verso le sei del mattino
dalla bottiglia di orzata dove galleggia Milano
non fu difficile seguirlo il poeta della Baggina
la sua anima accesa mandava luce di lampadina
gli incendiarono il letto sulla strada di Trento
riuscì a salvarsi dalla sua barba un pettirosso da combattimento

I Polacchi non morirono subito
e inginocchiati agli ultimi semafori
rifacevano il trucco alle troie di regime lanciate verso il mare
i trafficanti di saponette mettevano pancia verso est
chi si convertiva nel novanta ne era dispensato nel novantuno
la scimmia del quarto Reich ballava la polka sopra il muro
e mentre si arrampicava le abbiamo visto tutti il culo
la piramide di Cheope volle essere ricostruita in quel giorno di festa
masso per masso schiavo per schiavo comunista per comunista

La domenica delle salme non si udirono fucilate
il gas esilarante presidiava le strade
la domenica delle salme si portò via tutti i pensieri
e le regine del "tua culpa" affollarono i parrucchieri

Nell’assolata galera patria il secondo secondino
disse a Baffi di Sego che era il primo
si può fare domani sul far del mattino
e furono inviati messi fanti cavalli cani ed un somaro
ad annunciare l’amputazione della gamba
di Renato Curcio il carbonaro
il ministro dei temporali in un tripudio di tromboni
auspicava democrazia con la tovaglia sulle mani e le mani sui coglioni
voglio vivere in una città dove all’ora dell’aperitivo
non ci siano spargimenti di sangue o di detersivo
a tarda sera io e il mio illustre cugino De Andrade
eravamo gli ultimi cittadini liberi di questa famosa città civile
perché avevamo un cannone nel cortile

La domenica delle salme nessuno si fece male
tutti a seguire il feretro del defunto ideale
la domenica delle salme si sentiva cantare
quant’è bella giovinezza non vogliamo più invecchiare

Gli ultimi viandanti si ritirarono nelle catacombe
accesero la televisione e ci guardarono cantare
per una mezz’oretta poi ci mandarono a cagare
voi che avete cantato sui trampoli e in ginocchio
coi pianoforti a tracolla travestiti da Pinocchio
voi che avete cantato per i longobardi e per i centralisti
per l’Amazzonia e per la pecunia
nei palastilisti e dai padri Maristi
voi avete voci potenti lingue allenate a battere il tamburo
voi avevate voci potenti adatte per il vaffanculo

La domenica delle salme gli addetti alla nostalgia
accompagnarono tra i flauti il cadavere di Utopia
la domenica delle salme fu una domenica come tante
il giorno dopo c’erano i segni di una pace terrificante

mentre il cuore d’Italia da Palermo ad Aosta
si gonfiava in un coro di vibrante protesta

martedì 28 luglio 2009

recensioni in pillole 23 - "Le età del jazz. I contemporanei"

Claudio Sessa, Le età del jazz. I contemporanei, Il Saggiatore 2009 (252 pp., 23 €)

Vabbè, "il jazz è morto", lo dicono tutti, da almeno trent'anni. Tanto che nessuno più pensa di chiedersi se è vero. E allora è bene che ci abbia pensato Sessa, giornalista e critico di lungo corso, ben noto agli appassionati di jazz.
Ed è anche significativo che, per rileggere "le età del jazz", Sessa sia partito dalla contemporaneità: altro segno che, forse forse, il jazz qualcosa da dire ce l'ha ancora.
Il territorio della "contemporaneità" parte, per Sessa, da metà anni Ottanta (ma con frequenti diramazioni nei decenni precedenti): una scelta del tutto condivisibile, dato che comincia allora quella (apparente) frenata nella rapidissima evoluzione che fino agli anni Settanta aveva caratterizzato questa musica.
A partire da quel punto, Sessa cerca di fare quel che nessuno, a mia notizia, aveva ancora tentato: non una semplice cronaca di quel che c'è o non c'è, e nemmeno una monografia su un singolo artista o su una particolare tendenza, bensì una mappa che individui gli snodi, i punti comuni, le linee di forza che hanno guidato il jazz degli ultimi venti-venticinque anni.
Ecco allora il superamento della dicotomia Stati Uniti-Europa, l'emergere delle particolarità locali insieme alla / contro la globalizzazione (con un acuto paragrafo sul jazz italiano degli anni Ottanta e Novanta), il neoclassicismo, il camerismo, l'uso dell'elettronica, fino a quegli artisti che hanno cercato di ripensare radicalmente forme e narrazioni del jazz, e fino ad arrivare alle soglie della post-modernità.
Un punto forte del libro è il costante riferimento a dischi e brani, spesso dimenticati o poco noti, che permettono di radicare l'analisi in corpore vivo. In oltre duecento esempi musicali, sfilano i nomi di Steve Coleman, Tim Berne, Ellery Eskelin, Myra Melford, Dave Douglas, Don Byron, Uri Caine, Nguyen Le, John Surman, John Zorn, Bill Frisell, i Bad Plus, Brad Mehldau, Pietro Tonolo, Giovanni Mazzarino, Giovanni Falzone, Stefano Maltese, John Carter, Wynton Marsalis, Joe Lovano, Bobby Previte, Henry Threadgill, Butch Morris e infiniti altri.
Insomma: il jazz è vivo, e intende restarlo a lungo.

lunedì 27 luglio 2009

jazz people 3 - il grande critico

Il Grande Critico rifiuta di fare bignami. I suoi corsi, dice, sono per chi è in grado di capirli.
I suoi giudizi sono rasoiate: perentori, assoluti, paradigmatici, apodittici, trancianti. “La musica brasiliana fa schifo”, sentenzia, e la questione per quanto lo riguarda finisce lì.
Rifiuta la musicologia perché, dice, “un'analisi musicologica può solo vedere quel che già c'è”. Come se fosse poco.
Invitato a un convegno, GC pretende una stanza con tende e scuri alle finestre: “Ho bisogno del buio assoluto, perché la mattina dormo sempre almeno fino alle dieci”. Di conseguenza, il suo intervento al convegno non potrà in nessun modo aver luogo prima delle undici.
Perché lui è GC, e noi non siamo un cazzo.

domenica 26 luglio 2009

diario d'estate 6 - partenze



Giovedì 9 luglio
Da solo, alle otto del mattino, esco a passeggiare. C'è la bassa marea, la laguna è chiazzata di secche, le barche ormeggiate pendono oblique. La spiaggia è deserta, tranne un signore dai capelli bianchi che fa jogging. Un grosso granchio si prende il primo sole.
Cammino a torso nudo, con il sole sulle spalle e la brezza sul petto.
Sotto i piedi si incolla un denso fango salmastro.

Le nove e trenta. D. e la bambina dormono ancora, io sto facendo colazione. Nel giro di pochi minuti il cielo si oscura, due o tre cornacchie si posano strepitando su un pino marittimo. Scoppia il solito acquazzone.
Una ventata fa volare via la plastica che copriva l'automobile. Corro a recuperarla, in pigiama sotto la pioggia.

A mezzogiorno c'è di nuovo il sole. Rimane una bava di vento fresco che si infila tra i bungalow.


Venerdì 10 luglio
Solito temporale mattutino, solita schiarita in tarda mattinata.
E' il compleanno di D. Vengono a trovarci da Verona la cognata e le due cuginette: due, ma fanno casino per otto. La bimba un po' ci gioca, un po' rimane in disparte, a osservarle con la solita aria filosofica, stringendo le due bambole preferite (la Bimba e la Bau) sotto le ascelle, come due baguette.

Finito di leggere Le età del jazz. I contemporanei.

"Egocentrico" è un modo educato per dire stronzo.


Sabato 11 luglio
Sette del mattino. Ultima occhiata al mare.
Bassa marea; la laguna è di due colori: celeste cielo sull'acqua bassa, liscia come uno specchio, azzurro cupo dove è più profonda, increspata dal vento.
Un airone cammina a pelo d'acqua con passi circospetti, fermandosi di tanto in tanto per guardarsi intorno. Mi sposto sul bungalow di fronte per osservarlo meglio, magari fotografarlo.
Il bungalow è disabitato, la veranda è cosparsa di aghi di pino secchi e bacche marce. C'è un mucchietto di piume e interiora coperte di formiche, e poco più in là un grumo di penne da cui spuntano le zampe.

Fila in autostrada. Affianco una station-wagon tedesca con il volante foderato di pelliccia. Non credevo ce ne fossero ancora.

Una fettina di speck lasciata a cuocersi sull'asfalto di un parcheggio.

Accanto a me, in fila al bar dell'autogrill, un tizio palestrato esibisce, tutto intorno al bicipite sinistro, un tatuaggio che raffigura una fila di uomini incappucciati che brandiscono spranghe, sormontati da simboli runici.

Nel punto in cui l'A1 valica l'Appennino, tra Bologna e Firenze, all'altezza di Sassomarconi, vive una colonia di corvi la cui attività principale pare quella di starsene appollaiati a bordo strada per guardar passare le automobili.

A Roncobilaccio, sospeso su rupi impellicciate di boschi, un cielo drammatico, tutto nubi nere sconvolte e sfilacciate, ci rovescia addosso a intermittenza secchiate di pioggia.

sabato 25 luglio 2009

trenta giorni, trent'anni

Okay, era il 1978, in piena disco fever, e si sente (e si vede: guardate i vestiti, per tacere dei capelli...).
Però che ritmo. E che allegria. Come si fa a tener fermi i piedi?
A me piace particolarmente il ragazzo che fa la parte del solista, quello che indossa la t-shirt rossa con la stella. Si chiamava Michael, aveva vent'anni, cantava da quando ne aveva cinque.
E' così carino. E sembra così felice...

venerdì 24 luglio 2009

recensioni in pillole 22 - "Antologia della letteratura fantastica"

Jorge Luis Borges/Silvina Ocampo/Adolfo Bioy Casares, Antologia della letteratura fantastica, Einaudi 2007 (538 pp., € 17,80)

Non compro quasi mai antologie, perché odio la letteratura ridotta a crestomazia e odio dipendere dalle scelte altrui. In questo caso mi hanno convinto i nomi dei curatori e la loro ovvia affinità con l'oggetto trattato.
Perfidia di letterati. I tre, snob come non mai, hanno costruito un percorso che gioca deliberatamente con l'arbitrio: i testi sono esclusivamente quelli che rispondono al loro gusto; nessun criterio d'epoca, autore, genere o provenienza geografica. Anzi, a sparigliare ulteriormente le carte, i racconti sono disposti per ordine alfabetico d'autore, così che Borges è accostato a Martin Buber, Lewis Carrol a G. K. Chesterton, Joyce a Don Juan Manuel, Kafka a Kipling, Silvina Ocampo a E. O'Neill, Poe a Rabelais e così via, senza contare i numerosi autori più o meno oscuri, cinesi, giapponesi o arabi.
Tocco finale: a volte di un autore sono estrapolati brevi brani, addirittura di poche righe, del tutto decontestualizzati.
Insomma, più che di un'antologia si tratta tout-court di un'opera d'autore, perdipiù elaborata nel corso di più edizioni, lungo quasi quarant'anni.
Vale l'acquisto non solo per i capolavori (I donghi di J. R. Wilcock, Rani di Carlos Peralta, Sredni Vashtar di Saki, La casa occupata di Cortazar, Tlon di Borges), ma per l'intera architettura del libro, per quel percorso sinuoso e imprevedibile tra testi disparati, ognuno dei quali illumina i vicini di una luce inedita.
Il fantastico come modo di guardare la realtà da un angolo nuovo, di costruire mondi alternativi, possibili o impossibili che siano.

(Peccato per gli innumerevoli refusi che infestano - impestano? - quasi ogni pagina: ma non esistono proprio più i correttori di bozze?).

giovedì 23 luglio 2009

diario d'estate 5 - ancora ragni, ancora pioggia


Martedì 7 luglio

Alle cinque del mattino mi sveglia il solito sogno: le membra pesanti come marmo, trascinarsi e non riuscire a camminare, come fossi legato a un macigno.

Il soffitto della veranda è stato colonizzato da decine di grossi ragni, tozzi e pelosi. In ogni interstizio delle travi hanno costruito nidi tubolari; dall'imboccatura spuntano nere le zampe anteriori in agguato.

Pensare che i ragni mi fanno anche un po' schifo. Ma mi affascinano le loro architetture aeree, impalpabili, quegli intrecci perfetti di fili tutti paralleli, equidistanti, concentrici, simili a pentagrammi disposti in circolo.

Siamo in piscina, ma quest'anno la bimba - che a sei mesi era un pesciolino e l'anno scorso giocava tranquilla con il culetto a mollo nella battigia - è terrorizzata dall'acqua. "No! no! acqua no!", ripete scuotendo con forza il ditino teso.

Verso l'una le nuvole cominciano ad addensarsi. Cade qualche goccia, poi smette; la laguna diventa color acciaio e si increspa quasi avesse la pelle d'oca; uno sciame di mosche vortica intorno al filo dei panni; il vento cresce e cala.
La tensione dura un'ora, poi scoppia il temporale, cadono aghi di pino, e nello stesso momento un raggio di sole illumina la veranda.

Pomeriggio a Grado. Una linea netta di nuvole violacee riproduce nel cielo il profilo della costa sottostante.


Mercoledì 8 luglio


La notte, violento acquazzone, seguito da una pioggerella insistente.
Alle tre mi sveglio. Ho freddo, mi inseguono pensieri depressivi. Indosso un pigiama più pesante, leggo un po', riprendo sonno.
Sogni precipitosi. In uno sono, chissà perché, a Buenos Aires, insieme ad A. e al coro.

Finito di leggere l'Antologia della letteratura fantastica.

Le nove del mattino. Sul divano del soggiorno. Da fuori arriva una luce umida, giallastra, malaticcia. Il campeggio è perfettamente silenzioso. Il frigorifero ronza. D. e la bimba dormono. Non ho fatto colazione perché voglio mantenermi ancora per un po' in quello stato di leggerezza fluttuante che dà il digiuno. Leggo, e mi sembra che le parole aderiscano con facilità.

Verso le undici il cielo si apre. Decidiamo di fare l'ultima gita. Passiamo l'Isonzo, giallo, gonfio per le piogge della notte.

Discesa nel cul-de-sac triestino. Traffico di caoticità quasi napoletana. Strade a tre corsie con continui attraversamenti a raso da entrambe le parti, ovunque motorini impazziti, guidatori aggressivi e impazienti, cinica indifferenza per i pedoni. Totale assenza di segnaletica stradale.

San Giusto bisogna guadagnarsela, arrampicandosi per stradine erte e sconnesse. Il giorno è limpido, senza una nuvola; in piazza Unità il vento di terra fa filare il passeggino come una barca a vela.

La bimba cade, batte il labbro. Un rivoletto rosso le tinge gli incisivi.

Torniamo a casa stravolti.
Tra le ombre della sera passa un'ombra più scura: un gufo che stringe tra le zampe un topo.
La bimba piange senza motivo, D. ha gli occhi pesti, io un principio di indigestione. Crolliamo addormentati alle nove e mezza.

mercoledì 22 luglio 2009

uno scrittore tragico

Sarebbe ora di cominciare a dire una cosa che, per chi conosce bene Calvino, è assolutamente chiara, ma che mi pare non lo sia in generale: Italo Calvino è uno scrittore tragico.
Lo scintillio dell'intelligenza, il costante controcanto ironico, il sofisticato gioco combinatorio, sono tutte maschere.
Il suo vero libro, per me, è Palomar: la cronaca di un fallimento.

martedì 21 luglio 2009

diario d'estate 4 - lavoro, riposo, ragni, bambini


Sabato 4 luglio

La bambina ha un po' di febbre. O forse è solo stanchezza. Dorme tutta la mattina e buona parte del pomeriggio.

Grazie alla TV, so più cose sugli gnu del Serengeti che sul mio vicino di casa.

Le misteriose ragioni dei ragni.
Uno ha scelto di costruirsi la tela proprio al centro del rettangolo formato dal terreno, un palo, un filo per i panni e il tronco di un pino. Rettangolo di circa due metri per tre, al centro del quale la tela, di 20-30 cm di diametro, è sospesa a tre fili lunghi quasi due metri. Che probabilmente verranno tranciati da un bambino in corsa o da una massaia con il bucato.

A Grado, mi fermo a controllare internet, D. e la bimba proseguono a far compere. Uscito dall'internet point, il cellulare all'improvviso non ha più campo. Le cerco per più di mezz'ora tra la folla. Nel frattempo, tre ambulanze passano a sirene spiegate. Mi chiedo che cosa avrei fatto, quando il cellulare ancora non c'era.


Domenica 5 luglio

Il test di gravidanza è positivo.

La naturale malignità delle cose. Il cellulare mi abbandona. Domani dovrò fare un'importantissima telefonata di lavoro e lunedì 13, appena tornato a Perugia, ho un impegno per il quale dovrò essere raggiungibile tutta la giornata. In più, ovviamente, oggi è tutto chiuso. Il cellulare è in garanzia ma non ho con me il certificato. Cercare, domani, un centro di assistenza, sperare sia cosa da poco.

Controllare l'ansia, decontrarre trapezio e gran dorsale, espandere la cassa toracica e farvi entrare liberamente l'aria. Immaginare un fiume di acqua pulita che scorre dalla calotta cranica ai talloni, e ritorno.

Pomeriggio indolente, di riposo assoluto.
La laguna è sotto un limpido cielo estivo. Sentiamo avvicinarsi un rotolìo di tuoni: alle nostre spalle avanza un fronte compatto e rettilineo di nuvole gonfie, bluastre.

Dormire all'aperto. Il sonno scende a riempire il corpo come acqua tiepida.


Lunedì 6 luglio

Sognato di essere in un albergo, sul punto di partire. Le valigie sono già nella hall, ma tornato in camera trovo ovunque vestiti, scarpe, oggetti dimenticati. Corsa affannosa per raccoglierli tutti.

"Nella pancia della mamma c'è un bimbo piccolo così. Dagli un bacino".

Mattina con cielo coperto, caldo appiccicoso.
Telefonata di lavoro. Sistemo tutto per lunedì. Forse saprò anche se mi è stato rinnovato o no l'assegno di ricerca. L'aver risolto mi dà un senso di calma e appagamento. Nessuna ansia di conoscere il responso.
Sento i muscoli sciogliersi, la tensione scorrere via come da una bacinella rotta.

Batto più volte le mani a vuoto a mezz'aria, inseguendo una zanzara. La bimba ride a crepapelle e mi imita.

Il porticciolo di Grado. Fra le barche ormeggiate, acqua verde, aghi di pino, assorbenti usati, pezzi di polistirolo, ossi di seppia, pesci rovesciati a pancia in su, un gabbiano morto, foglie marce, chiazze di benzina.

Aprendo la finestra, distruggo una ragnatela. Pochi minuti dopo vedo il ragno (un minuscolo pallino bronzeo) zampettare in salita lungo un filo invisibile. All'ora di pranzo la ragnatela è di nuovo lì, esattamente dov'era prima.


lunedì 20 luglio 2009

sorgenti

Mi è tornato in mente qualche giorno fa, non so per quale motivo.
La prima poesia che ho scritto.
O meglio: la prima poesia che ricordo di aver scritto con l'intenzione cosciente di farlo (nel senso che ho la vaga memoria di aver sempre scritto, ma erano giochi, mentre quella fu la prima volta che lo feci per dare forma a un confuso grumo di pensieri e sensazioni che sentivo di avere dentro).
Ero alla premiazione di un concorso di poesia, al quale avevano partecipato gli studenti liceali della provincia. Credo avessi 13 o 14 anni, quindi doveva essere il 1988 o il 1989, o giù di lì.
Gli studenti salivano su un palco e leggevano le loro poesie. Dovevano avere forse 16 o 17 o al massimo 18 anni, ma a me sembravano adulti.
Le poesie erano, oggettivamente, brutte. Ricordo un tizio che aveva scritto cose come "Io / sono". Punto e basta (geniale, no?). Oppure come "Stranamente / m'illudo".
Però io ero appena entrato nell'adolescenza, e quell'entrata la ricordo come una specie di cesura tagliente, dolorosa, un muro d'ombra che separa il me stesso bambino dal me stesso di dopo, di oggi. Diciamolo: l'adolescenza è stato il periodo più brutto della mia vita, un periodo che non vorrei mai rivivere. Un unico down quasi ininterrotto, durato più o meno dai 14 ai 20 anni.
Insomma, le poesie erano brutte ma io ero appena entrato nell'adolescenza, e tornato a casa scrissi:

Immersi

in un mare
grigio

di malinconia

senza niente intorno


Bruttina anche questa, vero? Eppure il fatto di vedere quella cosa informe che sentivo tradotta in parole, fissata su carta, mi procurò una sensazione rinfrancante, una sorta di frescura sorgiva.
Dovrei averla ancora, da qualche parte. Anzi, dovrei avere quaderni interi di poesie, o meglio di ribollente materia psichica che da allora in poi cominciò ad eruttare in maniera quasi incontrollata, come i ributtanti brufoli che da un giorno all'altro cominciarono a costellarmi la faccia.
Non credo di aver riletto quelle poesie da anni, né ho voglia di farlo.

domenica 19 luglio 2009

diario d'estate 3 - venezia


Venerdì 3 luglio

6 e 30 del mattino.
Notte agitata. Esame di coscienza: negli ultimi mesi, calo di interesse e motivazione nel lavoro. Poca concentrazione. Andare avanti per inerzia. Preso in un ingranaggio al quale obbedisco controvoglia.
Proposito: impegnarsi per i prossimi mesi, giudicare i risultati. In caso negativo, rimettere l'incarico, dare la possibilità a persone più interessate e motivate (A.C.?). Valutare se è una crisi passeggera o strutturale.

Autostrada. Anonimato che si trasforma in volto umano solo in caso di collisione.

Venezia. Intera giornata su e giù per i ponti con il passeggino.
Cercare le tracce di una città vera (case abitate, donne con la borsa della spesa, famiglie con bambini).
La bellezza inevitabile: la Pala Pesaro ai Frari, la Tempesta all'Accademia, un polittico di Vivarini a San Zanipolo.

In un reliquiario di cristallo a forma di prisma, il piede di Santa Caterina da Siena, mozzato poco sopra il calcagno e deposto in verticale su una trina. Color bianco avorio, con tutte le unghie intatte, l'alluce teso e le altre dita un po' rattrappite. Sembra avere la consistenza di un sasso.

All'Accademia, la bambina di affaccia su una sala piena di Tintoretto e fa una gran cacca nel pannolino. Poi inciampa e comincia a piangere a squarciagola, facendo echeggiare il silenzio felpato delle enormi sale, fino ai soffitti altissimi.

Da un portone esce una ragazza giapponese. Nella penombra si vedono solo le dieci unghie dei piedi, dipinte di celeste fosforescente.

Una sacra conversazione del Bellini, con la pittura liscia e morbida come pelo di gatto. Il Miracolo dello schiavo di Tintoretto, steso a pennellate grasse e baldanzose. L'ultima Pietà di Tiziano, grumi di colore simili a materia organica in meiosi.

Nei quadri veneti del Quattro e Cinquecento, trascuro spesso le figure e mi incanto sugli sfondi: cieli, campagne, casolari, castelli, nuvole azzurre e rosa, alberi dal tronco slanciato come corpi di ragazze, oppure una stanza con la finestra aperta, la luce che entra di taglio sugli oggetti quotidiani. Oppure il buio, quella tenebra catramosa da cui uomini e oggetti emergono in color terra di Siena bruciata, come da acqua torbida.

Sulla tomba di un doge: “amator iustitie pacis et ubertatis”. Popolo di mercanti...

Tutto intorno a Venezia, chilometri e chilometri di binari, cemento, svincoli, palazzi con facciate di acciaio e cristallo, afa, residui di combustione, ferro arroventato, ciminiere, acqua inquinata, nemmeno un albero.
La gente aspetta l'autobus in un paesaggio postatomico.

sabato 18 luglio 2009

recensioni in pillole 21 - "Don Segundo Sombra"

Ricardo Güiraldes, Don Segundo Sombra, Bompiani 1983

Don Segundo Sombra è per gli argentini quello che per noi è I Promessi Sposi: il romanzo nazionale, su cui si costruisce la propria identità.
Pubblicato nel 1926, è il capolavoro, e allo stesso tempo l'estremo epigono, della letteratura gauchesca, fiorita nella seconda metà del XIX secolo, che raccontava e mitizzava la figura del gaucho, l'equivalente argentino del cowboy, il mandriano ribelle agli obblighi della civiltà, l'eterno vagabondo in cerca d'avventure, simbolo di virilità e di eroismo.
Quando Güiraldes scriveva, quel mondo era ormai scomparso. Egli stesso, del resto, era un uomo coltissimo, poliglotta, cosmopolita, cresciuto ed educato in Francia, anche se aveva conosciuto il mondo rurale da bambino, nella tenuta paterna di San Antonio Areco, presso Buenos Aires.
Il protagonista - voce narrante e, in una certa misura, alter ego dell'autore - è un ragazzino di strada, orfano, dalla nascita incerta, il cui nome viene detto solo nel finale. Un giorno incontra il gaucho Don Segundo e lo sceglie come mentore e maestro di vita: seguirà il suo "padrino" nei vagabondaggi per la pampa selvaggia e sconfinata, diventando nel frattempo un uomo (anzi, come dice uno dei personaggi: "più che un uomo: un gaucho").
Il romanzo non ha una trama precisa, ma ricostruisce la vita dura e libera dei gauchos, fatta di fatica, feste, duelli, rude cameratismo, allegria e tragedia, narrandola con realismo minuzioso (l'originale usa largamente espressioni gergali argentine) e allo stesso tempo avvolgendola in un'aura mitica.
Al centro di tutto campeggia la figura di Don Segundo, coraggioso e taciturno, forte e impassibile davanti alla buona come alla cattiva sorte, simbolo di un ideale eroico, ma allo stesso tempo piantato nella più solida ed elementare umanità.

venerdì 17 luglio 2009

diario d'estate 2 - sole, acqua


Mercoledì 1° luglio
La piazza esagonale di Palmanova è un'immensa piastra da barbecue arroventata dal sole. Il paese, imprigionato nella sua griglia geometrica, trasmette un senso di solitudine e abbandono.
Mangiamo kebab da un tunisino simpatico e chiacchierone.

Un punto internet. Trovo una mail della relatrice. Dice di avermi scritto tre giorni prima e di essere seccata per non aver ricevuto risposta (benedetta donna, gliel'avevo detto che non avevo il computer dietro, di chiamarmi al cellulare). Mi accusa di essere andato in ferie dimenticandomi di fissare una serie di impegni importantissimi per la settimana in cui rientrerò. Tento una risposta conciliante, le assicuro che è tutto a posto, che alle poche cose in sospeso provvederò per tempo.
Però è vero che me ne sono dimenticato. Ed è significativo, perché non è da me. Mi sono sempre vantato di una precisione al limite della pignoleria, e una trascuratezza del genere è sintomo chiaro di un disagio.
Mi resta addosso un senso non solo di irritazione, ma di fastidio acuto, di costrizione, l'angoscia di non essere del tutto padrone delle mie azioni. Per l'ennesima volta, mi viene voglia di mollare l'università e di tornarmene al mio tranquillo posticino di professore al liceo. Forse è davvero il momento.

Redipuglia. Appena iniziata la salita, ci sorprende un acquazzone feroce, con cielo scurissimo, vento e lampi. Arriviamo fradici a un bar, avvolgiamo la bimba terrorizzata in un asciugamano.
Da qualche parte, su quella collina di marmo frustata dalla pioggia, ci sono le ossa del mio bisnonno.
Torniamo verso la costa, il cielo si rasserena e la giornata ridiventa estiva. L'aria calda rende ancora più insopportabile il contatto con i vestiti bagnati.

Riacquisire la coordinazione occhio-mano necessaria a colpire la zanzara in volo, poi correre a cancellare sotto l'acqua la stria di sangue esplosa dall'insetto.

Verso l'ora del tramonto, dei pesci che non riusciamo a individuare (orate? triglie?) cominciano a fare salti fuori dall'acqua. Sfondano la superficie dorata, si stagliano nell'aria e si reimmergono con uno scroscio, lasciando un cerchio di onde nell'acqua pigra e oleosa.

La carta dei libri, si dice, fra cinquanta (o cento?) anni sarà corrosa dagli acidi dell'inchiostro. La carta di giornale dura poche settimane. E internet? E questo blog?

Un crescendo di fronde smosse annuncia l'arrivo di una pigna, che finisce sulla sabbia con un tonfo attutito.

L'irritazione, sommata alla stanchzza, mi fermenta dentro fino all'ora di dormire, creando un groppo malsano alla bocca dello stomaco. Mi aiuta a prendere sonno il solito pensiero (che in fondo siamo atomi, che l'universo se ne frega, che con noi o senza noi le galassie continuano il loro moto). Quello, e un'altra cosa che non dico.

Regola aurea: mai pensare ai problemi quando è buio e si è stanchi morti.


Giovedì 2 luglio
Udine. Un altro acquazzone, che stavolta ci trova preparati.

Il campeggio consente all'uomo civilizzato di godere dei benefici del ritorno alla natura (vicinanza di vegetali e animali, più o meno esteticamente gradevoli) e di liberarsi di alcuni obblighi della civiltà (es. il vestiario) senza rinunciare ai suoi comfort più essenziali.

Su Repubblica di oggi, Jonathan Franzen parla di JR, libro di William Gaddis appena tradotto in italiano. Trattasi di un “un romanzo di 726 pagine contenenti quasi per intero discorsi e voci che si sovrappongono, senza virgolette, senza una forma narrativa convenzionale di alcun genere, [...] senza nessuna interruzione e suddivisione in capitoli, senza nemmeno una pausa, ma soltanto migliaia di trattini ed ellissi, un cast di decine di personaggi e una trama assurdamente complicata basata sull'Anello di Wagner e incentrata sull'impero imprenditoriale plurimiliardario di un undicenne di Long Island di nome JR Vansant”. Franzen confessa di aver abbandonato il libro a metà lettura.

giovedì 16 luglio 2009

recensioni in pillole 20 - "il filo e le tracce"

Carlo Ginzburg, Il filo e le tracce. Vero falso finto, Feltrinelli 2006 (340 pagg, 25 €)

Ci sono libri che sono l'equivalente di epifanie intellettuali. Per me uno di questi è stato Storia notturna (1989), il celebre studio di Carlo Ginzburg sulla stregoneria: un libro che univa in modo geniale punti lontani del sapere (storia, sociologia, antropologia), accompagnandoli con una capacità affabulatoria che trasformava un'opera di ardua erudizione in una lettura appassionante.
Il filo e le tracce (tredici saggi pubblicati fra il 1984 e il 2003, più tre inediti) è una sorta di ricapitolazione dei temi che hanno sempre innervato la ricerca di Ginzburg.
Le “tracce” sono la base del suo metodo, incentrato sulla ricerca di emergenze culturali apparentemente secondarie, eccentriche ma che consentono di gettare una luce sorprendente su un periodo storico o su una categoria storiografica. “Microstoria”, come viene spesso chiamata, apparentemente simile a certe ricerche “postmoderne” che hanno rifiutato i grandi impianti storiografici e hanno sostenuto l'impossibilità di arrivare a una sintesi globale dell'esperienza storica, equiparando di fatto la storia alla narrazione e negandole ogni valore conoscitivo. Ma qui interviene il sottotitolo: “vero falso finto”, autentico cuore metodologico del libro.
Ginzburg, infatti, non si limita mai al “micro”, e cerca invece di illuminare il generale tramite il particolare; pur avendo sempre presente la natura culturalmente costruita del discorso storico, non rinuncia mai al suo valore conoscitivo più generale. La distinzione tra ciò che è vero (i fatti), ciò che è finto (la narrazione) e ciò che è falso (la mistificazione) rimane per il lui il dovere primo e il compito ultimo dello storico.
Questo libro, però, non si esaurisce nell'interesse puramente storico dei saggi raccolti, perché quello che ne emerge è una vera e propria autobiografia intellettuale dell'autore. Lo dimostra il brano (p. 282) in cui Ginzburg descrive l'origine della sua attività di storico, “l'euforia dell'ignoranza”: “la sensazione di non sapere niente e di essere sul punto di cominciare a imparare qualcosa. [...] L'intenso piacere associato a questo momento [ha] contribuito a impedirmi di diventare uno specialista”. E ci ha consegnato alcuni dei libri di storia più profondi degli ultimi quarant'anni, in cui la cultura prende la forma che dovrebbe sempre avere: quella del piacere di imparare.

mercoledì 15 luglio 2009

diario d'estate 1 - arrivo

Era da parecchio che non sentivo più l'impulso di tenere un diario.
Durante questa vacanza è successo.
Pubblico il pubblicabile...



Domenica 28 giugno
Partenza con la pioggia. Autostrada, 600 km tra sole e acquazzoni.
La bambina dorme; viaggiamo in silenzio, senza musica, parlando per sussurri.
Scendo aggranchito da sei ore di guida.

Passeggiata per il campeggio semivuoto. Qualche coppia di austriaci, gentilissimi, con i bambini dalla pelle abbronzata e i capelli di un bianco albino.


Lunedì 29 giugno
Mattinata indolente, pennica postprandiale.
Poi a Grado, con la pioggia. La bambina percorre decisa la navata del duomo, arriva di fronte all'altare, si volta e solleva la gonna, mostrando tutta orgogliosa il pannolino.

Uno scoiattolo smilzo, nero con il ventre bianco, usa il tetto del bungalow di fronte come passerella fra il leccio e il pino marittimo. Lo osserviamo passare più volte, con l'aria affaccendata.


Martedì 30 giugno
Laguna di Grado.
Acqua calda e salmastra, diversa da quella che conosco. Verde, densa, popolata da minuscoli granchietti che fanno il solletico sui piedi.
L'orizzonte è segnato da lingue di sabbia e macchia mediterranea. Sabbia dura e grigia, che dopo i passi rimane sospesa in aria come polvere.

Le parole dei libri risuonano nello spazio aperto fra terra e acqua.
Apprendo dalla radio del bar di una sciagura ferroviaria. Viareggio, almeno 10 morti.

Una coppia di inglesi sui cinquant'anni: lui biondo e un po' imbolsito, lei sempre a seno nudo, la pelle secca, la carne piena di tendini.

Finito di leggere “Don Segundo Sombra”.

La bambina è irrequieta, dorme con noi sul lettone. Prima di addormentarsi canta e gioca a lungo con la propria ombra; se spegniamo la luce scoppia in un pianto isterico. Si addormenta alle tre, prona, con i piedi verso la testata del letto.
Alle quattro mi sveglio con una forte sensazione di allarme. Apro gli occhi e vedo la bambina che rigirandosi nel sonno è arrivata alla sponda del letto e sta per fare l'ultima capriola che la porterà nel vuoto. Mi tuffo a pesce ma non riesco a impedire che batta il braccio e la fronte sul pavimento. Per fortuna il letto è basso. Le si forma un piccolo bernoccolo. Si addormenta singhiozzando fra le braccia della mamma.

martedì 14 luglio 2009

versi dell'esilio


Car nulhs autres jois tan no·m plai
cum jauzimens d'amor de lonh.
Mas so qu'ieu vuelh m'es atahis...
JAUFRE' RAUDEL


Amor de lonh è concimarsi il cuore
dare pastura al proprio carcinoma

avere il sangue basso nelle viscere
le orbite spolpate.

lunedì 13 luglio 2009

de consolatione



Tu mi dicevi che ognuno di noi
è il caso particolare di un destino anonimo
un exemplum della speciazione

io rispondevo che la vita in fondo
è un serbatoio di metafore inerti
e che esistiamo solo quando lo diciamo

ma entrambi sapevamo di essere innamorati
che l'amore neutralizza i plurali
i nomina universalia

e che la vita è più importante della morte
perché è più breve.

domenica 12 luglio 2009

chronological snobbery

Quel che ho chiamato "snobismo cronologico" [è] l'accettazione acritica del clima intellettuale comune alla nostra epoca e la presupposizione che qualunque cosa non sia più attuale sia perciò stesso priva di fondamento. Bisogna rendersi conto del perché non è più attuale. E' mai stata confutata (e, se sì, da chi, dove, e con quale autorevolezza) oppure è semplicemente svanita come fanno le mode? Se è vera la seconda, allora ciò non ci dice nulla circa la sua verità o falsità. Dal rendersi conto di questo fatto, si passa alla consapevolezza che anche la nostra epoca è un "periodo", e di certo ha, come tutti i periodi, le proprie caratteristiche illusioni. Esse si nascondono con ogni probabilità in quelle presupposizioni largamente accettate, talmente incardinate nell'epoca che nessuno osa attaccarle o pensa sia necessario difenderle.
(C. S. Lewis, Surprised by Joy, pp. 207-208)

sabato 11 luglio 2009

jazz people 2 - il cafone sul piedistallo

È un cafone: rozzo nelle parole e nei modi, maleducato, tracotante, sboccato, diventa viscido e insinuante solo con quelli che gli servono, finché gli servono. Ma è arrivato, per motivi inspiegabili (o forse spiegabilissimi) su un piedistallo, uno dei più alti del jazz italiano e mondiale.
Il Cafone sul Piedistallo (CP) va a un concerto, da lui stesso organizzato, e disturba chiacchierando ad alta voce.
Invita artisti infami per fare cassetta, salvo poi sparlarne nel backstage. A chi lo critica, risponde che se il festival non gli piace, l'anno prossimo può anche non venire; perché sa che, comunque, tutti ci verranno.
Una volta CP aveva organizzato, in un'enoteca, un concerto di quel gran signore di Renato Sellani. Durante l'intervallo avvicinai Sellani e gli chiesi un'intervista che lui, gentile come al solito, mi concesse volentieri. Dopo cinque minuti CP si avvicinò, prese Sellani sottobraccio e, senza degnare me di uno sguardo, senza dare a lui il tempo di salutarmi, se lo portò via.
Vidi una volta CP maltrattare protervamente un tecnico del suono, un uomo di cinquant'anni, perché pioveva e si era dimenticato di coprire un mixer con il telo impermeabile. Erano entrambi su un palco all'aperto, davanti a quattro o cinquecento persone, e CP lo chiamava coglione, pezzo di merda, testa di cazzo, lo minacciava di licenziarlo e mandarlo affanculo. Il tecnico, un omaccione, ascoltava a testa bassa, come un gregario davanti al suo padrino.

venerdì 10 luglio 2009

esperimento di pensiero

Pensavo: se dovessi far comprendere a un osservatore marziano la situazione politica italiana, gli farei vedere questo filmato, chiedendogli di sostituire mentalmente i nomi dei gruppi politici citati con quelli dei tanti gruppuscoli che fermentano nella Sinistra.



Poi gli farei vedere quest'altro, sostituendo "Romani" con "Berlusconi":

giovedì 9 luglio 2009

jazz people 1 - la firma famosa

E' una Firma Famosa, una delle più famose nel giornalismo jazzistico italiano. Lo chiamerò dunque FF.
FF ha esordito in tempi nei quali la critica jazz era un'attività da pionieri e la sua infarinatura pasticciata poteva passare per competenza. Da quarant'anni capitalizza sul fatto di aver conosciuto e frequentato un vecchio maestro. Oggi è entrato a pieno titolo fra i "decani".
La prima volta che incrociai FF fu a un concerto di Umbria Jazz. Andò via dopo dieci minuti e l'indomani scrisse una recensione in cui sbagliò i titoli di tutti i pezzi.
Qualche giorno dopo lo rividi a un concerto di Uri Caine. Era seduto nella fila davanti a me e sparlava di Stefano Bollani perché, sosteneva, “dopo tanti anni che ci abbiamo messo noi per far capire che il jazz è una cosa seria, ti arriva questo qui a far tutte 'ste buffonate”. Quando uscì la sua recensione di Umbria Jazz, ritrovai la frase para para, ma era attribuita a “qualche vecchio appassionato”. Quando si dice il coraggio delle proprie idee.
Dopo il concerto, insieme a un altro paio di giornalisti facevo la fila per intervistare Uri Caine. Arrivò FF, ci passò davanti e, senza bussare, entrò nel camerino. Poi si voltò, vide le nostre facce costernate e ci fece: “Solo un momento, saluto Uri”. Stette dentro mezz'ora. Il giorno dopo uscì un'intervista su tre colonne.
Qualche mese dopo lo reincrociai a un concerto, sempre qui a Perugia. Era annunciata una cantante dal nome tedesco, del tutto sconosciuta. FF salì sul palco e la presentò, dicendo che questa cantante “seguiva una tendenza del jazz di oggi: quella di eseguire le musiche così come sono sullo spartito”. Risultò che la tizia, peraltro piuttosto belloccia, e accompagnata da un ottimo gruppo di jazz tradizionale, era una soprano lirica che non aveva la minima idea di che cosa fosse il jazz. Cantava gli standard come fossero la Traviata. Se volete figurarvi l'effetto, provate a immaginare la Callas che canta “Satisfaction”.
L'organizzatore del concerto mi confessò che la tizia era l'amante di FF.
Un amico mi raccontò di aver sentito una conferenza di FF, il quale aveva annunciato con gran pompa che avrebbe parlato delle “influenze operistiche in Armstrong”, con ascolti di assolo commentati. Risultò poi che aveva portato tutti i dischi sbagliati e non si poterono ascoltare gli assolo.
Dopo la conferenza, in pizzeria, FF parlò tutto il tempo del proprio coso. “No, non posso prendere la pizza con i peperoni, perché senno poi LUI non mi funziona”. “Perché sai, LUI ha la metà dei miei anni, ne ha trenta”. FF aveva passato già da un po' la settantina.

la carne


Una celebrazione dell'amore fisico, in tutta la sua gioia brutale. Un inno eversivo, un “make love, not war” ante litteram. Ben prima degli hippies, dei sessantottini, degli indiani metropolitani, dei situazionisti e dei no global. E anche con molto più stile.


Properzio, Elegie, II, 7

Gioia! Notte che fu tutta luce! E anche tu,
lettuccio che il piacere ha reso beato!
Quante ce ne siamo raccontate a luce accesa,
e poi, al buio, che battaglie!
Lottava con me a seno nudo
poi coperta dalla veste riposava.
Coi baci mi apriva gli occhi già vinti dal sonno:
“Così ti addormenti, sfaticato?”.
Quante volte ci siamo scambiati nell'abbraccio, quanti
baci ho posato sulle tue labbra!
Non si deve guastare l'amore brancolando al buio:
sono gli occhi, sàppilo, a guidare Venere.
Dicono che Paride si accese a vedere la Spartana nuda
alzarsi dal letto di Menelao,
nudo Endimione conquistò la sorella del Sole
e con lui giacque nuda la dea.
E se ti ostini a venire a letto vestita
ti ritroverai la veste a brandelli:
anzi, se l'ira mi farà andare oltre
mostrerai a tua madre i lividi sulle braccia.
Non hai ancora i seni cadenti a proibirti i giochi d'amore:
a questo bàdino quelle che han partorito.
Finché lo concede il destino, saziamoci gli occhi d'amore:
anche per te arriverà la notte senza più giorno.
Oh, se tu volessi una catena a stringerci per sempre,
che mai alcun giorno possa più sciogliere!
Prendi come esempio le colombe in amore,
maschio e femmina, una sola carne.
Sbaglia chi cerca la fine di un amore folle:
il vero amore non conosce misura.
L'aratore ingannerà la terra con false promesse
e il sole spingerà più veloci i cavalli neri
e i fiumi richiameranno le acque alla foce
e il pesce starà all'asciutto nel gorgo arido,
prima che io consoli altrove le mie pene:
suo sarò da vivo, suo da morto.
E se vorrà concedermi qualcuna di queste notti
anche un solo anno di vita sarà lungo.
Se poi me ne darà molte, in esse io sarò immortale:
chiunque in una notte può essere un dio.
Se tutti gli uomini volessero trascorrere così la vita,
giacendo con le membra spossate dal vino,
non ci sarebbe ferro crudele né nave da guerra,
né il mare d'Azio trascinerebbe le nostre ossa,
né Roma, assediata dai propri stessi trionfi,
si sarebbe stancata di sciogliere i capelli nel lutto.
Di me questo i posteri potranno lodare di sicuro:
i miei brindisi non offesero mai gli dei.
E finché hai luce, gusta i frutti della vita!
Se pure mi darai tutti i tuoi baci, saran sempre pochi.
E come i petali abbandonano le corolle inaridite,
e li vedi galleggiare sparsi nelle coppe,
così forse noi, che oggi ci gloriamo nell'amore,
domani saremo ostaggi del giorno fatale.

mercoledì 8 luglio 2009

work in progress

Parte I
Era una notte buia e tempestosa. All'improvviso, echeggiò uno sparo. Una porta sbattè. La fanciulla urlò.
All'improvviso, una nave pirata apparve all'orizzonte.
Mentre milioni di persone morivano di fame, il re viveva nel lusso. Nel frattempo, in una piccola fattoria del Kansas, un ragazzo cresceva.

Parte II
Cadeva una neve leggera, e la ragazzina dallo scialle rattoppato non aveva venduto una violetta in tutta la giornata.
In quello stesso momento, un giovane tirocinante all'ospedale cittadino stava facendo un'importante scoperta. La misteriosa paziente nella stanza 213 si era finalmente svegliata. Emise un fioco lamento.
Poteva darsi che fosse la sorella del ragazzo del Kansas che amava la ragazzina dallo scialle rattoppato che era la figlia della fanciulla scampata ai pirati?
Il tirocinante aggrottò la fronte.
“Mandria in fuga!” urlò il capo dei mandriani, e quarantamila capi di bestiame si precipitaronmo con fragore nel piccolo accampamento. I due uomini rotolarono a terra annaspando sotto gli zoccoli assassini. Un destro e un sinistro. Un sinistro. Un altro destro e sinistro. Un gancio alla mascella. La lotta era finita. E così il ranch fu salvo.
Il giovane tirocinante sedeva da solo in un angolo della caffetteria. Aveva imparato qualcosa sulla medicina, ma, cosa ancor più importante, aveva imparato qualcosa sulla vita.

FINE

(qui il testo originale)

come cambiano i tempi

martedì 7 luglio 2009

fisiognomica

Da un'intuizione di Sergio Garufi:

frivolezze

Okay, diamo per scontato che quella che vi propongo è una bellissima canzone (si chiama Dança da solidão, per la cronaca), che a cantarla è una delle più brave cantautrici brasiliane, Marisa Monte, e a suonarla è Paulinho Da Viola, l'autore, nonché una delle leggende della musica brasiliana contemporanea.
Ma il punto è che ho un contenzioso con un amico. Da anni lui sostiene che Marisa Monte è brutta, secca come un chiodo, con il nasone e i dentoni e assomiglia a Morticia Addams.
Io la trovo bellissima.
Voi che ne pensate?

domenica 5 luglio 2009

un eremita in california

Robinson Jeffers (Allegheny, Pennsylvania, 10 gennaio 1887 – Carmel, California, 20 gennaio 1962) è una figura singolare e, allo stesso tempo, esemplare nella poesia americana del Novecento.
Studiò in Europa e fu un profondo conoscitore della poesia greca e latina, ma la sua produzione poetica assume le cadenze epiche, profetiche della grande tradizione whithmaniana (anche se non mancano i rimandi, più o meno espliciti, a Lucrezio, Omero o Euripide).
Anticonformista anche nella vita, amava abitare nella solitudine, in mezzo alla natura incontaminata. Fece scandalo la sua relazione con Una Call Kuster, moglie di un celebre avvocato di Los Angeles e tre anni più vecchia di lui: Jeffers la conobbe all'Università, nel 1906, la sposò nel 1913 e i due rimasero insieme fino alla morte di lei, nel 1950.
Nel 1913 Jeffers si trasferì a Carmel, sulla costa della California, dove trascorse il resto della vita e si costruì con le sue stesse mani una casa di pietra, in cima a una scogliera a picco sul mare.
La sua poesia si ispira alla natura selvaggia, non toccata dall'uomo, e trasmette spesso un senso di bellezza tragica, primigenia. Il suo tema centrale è l'abbandono dell'egocentrismo e dell'antropocentrismo: non a caso, è considerato una sorta di ecologista ante litteram.
Non per questo fu alieno dalle vicende politiche, anzi le sue posizioni pacifiste e la sua opposizione all'entrata in guerra degli Stati Uniti dopo Pearl Harbour gli alienarono il favore del pubblico e della critica.
Non posso, per ragioni di spazio, pubblicare i suoi testi più lunghi, che arrivano spesso a contare varie centinaia di versi, quindi mi limito a quattro brevi poesie tratte dalla raccolta del 1948 "The Double Axe and Other Poems" (edizione italiana “La bipenne e altre poesie”, Guanda 1969, traduzione di Mary de Rachelwiltz).
Comprai il libro tanti anni fa, appena arrivato a Perugia, in una libreria che vendeva libri usati e che ora non esiste più. Ne “La bipenne” c'è anche uno dei capolavori di Jeffers, il lungo poema narrativo “Campofame”, dal quale Andrea Pazienza trasse uno dei suoi fumetti più belli e intensi, forse il suo canto del cigno.

* * *

FALCHI FERITI (II)

Preferirei, salvo le penalità, uccidere un uono che un falco; ma al grande codirosso
Non restava che impotente miseria
L'osso troppo fratturato per risanare, l'ala strascinava sotto gli artigli se si muoveva.
Lo nutrimmo per sei settimane, poi lo misi in libertà,
S'aggirò pei colli del promontorio e a sera tornò, chiedendomi la morte,
Non come mendicante, negli occhi c'era la vecchia
Indomita arroganza. Gli feci dono del piombo nel crepuscolo. Ciò che cadde era languido,
Piume di civetta, morbide penne femminee; ma quello che
Si librò, il guizzo impetuoso: gli aironi notturni lungo il fiume in piena strepitarono di paura quando si levò,
Prima che fosse del tutto spoglio di realtà.



AMA IL CIGNO SELVATICO

"Odio i miei versi, ogni riga, ogni parola.
Oh pallide fragili matite a cimentarvi con la curva
D'un solo filo d'erba, o con la gola d'un uccello
Appoggiata al ramo, arruffata contro il cielo bianco.
Oh specchi incrinati e opachi, provatevi ad afferrare
Un solo colore, un fuggevole lampo, o lo splendore delle cose.
Cacciatore sfortunato, pallottole di cera,
La bellezza leonina, le ali del cigno selvatico, la tempesta d'ali".
- Questo cigno selvatico, il mondo, non è preda di cacciatore,
Pallottole migliori delle tue non colpirebbero il petto bianco,
Specchi migliori dei tuoi si frantumerebbero nella fiamma.
Che importa se tu odi... te stesso? Ama almeno
I tuoi occhi che vedono, la tua mente che intende
La musica, il tuono delle ali. Ama il cigno selvatico.



PUNTA CARMEL

La pazienza straordinaria delle cose!
Questo bel luogo deturpato da un mucchio di case da periferia -
Tanto bello la prima volta che lo vedemmo,
Vergine campo di papaveri e di lupina murato da lisci scogli;
Soli intrusi due o tre cavalli al pascolo,
O qualche vacca a fregare i fianchi sulle rocce sporgenti -
Ora è arrivato il guastatore: che importa?
Nulla. Può attendere. Sa che la gente è una marea
Che cresce e a suo tempo decrescerà, e tutta la sua opera
Sarà dissolta. Intanto l'immagine della prisca bellezza
Continua a vivere nella venatura del granito,
Al sicuro come l'oceano infinito che s'inerpica sugli scogli. - In quanto a noi:
Dobbiamo distogliere le nostre menti da noi stessi;
Disumanizzare un poco i nostri punti di vista, ed essere fiduciosi,
Come la roccia o l'oceano da cui fummo ricavati.



UCCELLI E PESCI

D'ottobre a milioni verso riva vengono i pesciolini
Lungo la costa granitica del continente
Nella loro stagione: ma che pacchia per gli uccelli marini.
Che stregoneria d'ali fantasmagoriche
Nasconde l'acqua scura. Pesanti i pellicani gridano "Ha!" come il corsiero dell'amico di Giobbe,
E si tuffano dall'alto, i cormorani lunghi
E neri scivolano sott'acqua e cacciano come lupi nell'opaco verde. I gabbiani stridono, attenti,
Avidi e invidiosi protestano e beccano. Ingordigia isterica!
Nel rimpinzarsi isterico - una massa quasi umana -
Questi uccelli innocui! Come se trovassero oro
Per strada. Meglio dell'oro, si può mangiare: e chi
Tra questi volatili selvaggi ha pietà dei pesci?
Non uno di certo. Misericordia e giustizia
Sono sogni umani, non riguardano gli uccelli né i pesci né il Padre Eterno.
Ma prima di andartene, guarda bene,
Le ali, le bocche fameliche, i pesciolini plasmati dalle onde, lucidi veloci molluschi
Vivono di paura per morire nel tormento -
Loro destino e degli uomini - le isole rocciose, l'oceano immenso e Lobos sull'imbrunire
Sopra la baia: non è forse bello?

sabato 4 luglio 2009

gioia e mistero

La canzone è famosissima, e questa versione è la più famosa di tutte, quindi l'avrete sentita un milione di volte.
Però, a parte il fatto che ogni volta a me viene voglia di sentirla per la milionesima volta e uno, forse non avete mai visto questi due geni cantarla.
Beh, guardateli, e ditemi se avete mai visto una rappresentazione più bella di quel che è la gioia, il mistero, la bellezza, insomma in una sola parola: l'arte.

venerdì 3 luglio 2009

schermaglie d'amore - 2


Orazio, Odi, III, 8

‘Donec gratus eram tibi
nec quisquam potior bracchia candidae
cervici iuvenis dabat,
Persarum vigui rege beatior.’

‘donec non alia magis
arsisti neque erat Lydia post Chloen,
multi Lydia nominis,
Romana vigui clarior Ilia.’

‘me nunc Thressa Chloe regit,
dulcis docta modos et citharae sciens,
pro qua non metuam mori,
si parcent animae fata superstiti’

‘me torret face mutua
Thurini Calais filius Ornyti,
pro quo bis patiar mori,
si parcent puero fata superstiti.’

‘quid si prisca redit Venus
diductosque iugo cogit aeneo?
si flava excutitur Chloe
reiectaeque patet ianua Lydiae?’

‘quamquam sidere pulchrior
ille est, tu levior cortice et inprobo
iracundior Hadria:
tecum vivere amem, tecum obeam lubens.’

* * *

“Finché ti piacevo,
e un altro più giovane non cingeva
al posto mio la nuca bianchissima,
prosperai più felice del re di Persia”.

“Finché non bruciasti per un'altra
e Lidia, Lidia dal nome famoso,
non veniva dopo Cloe,
prosperai più illustre di Ilia romana”.

“Ora mi possiede la tracia Cloe,
dotta nel canto e abile sulla cetra:
per lei non temerei di morire,
se potessi far sì che il fato la risparmi”.

“Per me arde ricambiato
Calaide, figlio di Ornito da Turi:
per lui due volte morirei,
se potessi far sì che viva il ragazzo”.

“E se tornassimo all'antico amore
e ci riunisse un giogo di bronzo?
Se scacciassi la bionda Cloe
e a Lidia riaprissi le porte?”

“Anche se lui è più bello di una stella,
e tu più leggero di una scorza
e più iracondo dell'Adriatico crudele,
con te voglio vivere, con te morirei felice”.

giovedì 2 luglio 2009

pipe pugni e spinaci


Quest'anno, il 17 gennaio per la precisione, compiva 80 anni Popeye, meglio noto da noi come Braccio di Ferro.
Il fatto è passato quasi inosservato, e anch'io non ci avrei mai fatto caso se non fosse stato per un servizio trasmesso qualche settimana fa in "Do Re Ciak Gulp" di Vincenzo Mollica (il Mollicone, vecchia puttana dello showbiz, che avrà tutti i difetti del mondo, e che io trovo insopportabile nella sua ciarlataneria piaciona, ma che purtroppo rimane l'unico in TV a parlare di certe cose).
E' un peccato che il marinaio con la pipa e gli enormi avambracci sia noto alla maggior parte della gente solo per gli insulsi cartoni animati che ogni tanto passano ancora in televisione (quelli in cui veste una ridicola uniforme bianca e quasi sempre si scazzotta con lo scimmiesco Bruto per conquistarsi le grazie di quella stronza secca di Olivia) o per quella serie di fumetti per bambini pubblicata in Italia, indubbiamente graziosa ma che riduce il personaggio a una innocua, puerile macchietta.
Inviterei tutti quelli che non le conoscono a rileggersi le storie originali di Popeye, disegnate negli anni '30 dal creatore del personaggio, il geniale Elzie Crisler Segar (1894-1938).
Popeye the Sailor comparve per la prima volta il 17 gennaio 1929 in una striscia della serie "The Thimble Theatre".
Era destinato ad essere un personaggio minore, ma guadagnò rapidamente popolarità fino a conquistarsi il ruolo di protagonista.
Nei fumetti originali, era un marinaio scorbutico, irascibile, rissoso, guercio, non particolarmente sveglio, che parlava in modo buffo e sgrammaticato. Insomma, tutt'altro che un eroe. Fra l'altro, all'inizio gli spinaci occupavano un ruolo molto più secondario di quello che si affermò poi.
Ma i suoi lati positivi erano l'onestà, un solido e rustico buon senso e un'invincibile sincerità. Oltre, ovviamente alla forza e alla resistenza quasi sovrumane (ricordo una storia in cui veniva trapassato da sedici pallottole e commentava "ci vuol altro per stendere il vecchio Popeye", e un'altra in cui l'avversario gli spezzava l'osso del collo e lui ci si legava un manico di scopa e continuava a combattere tranquillamente).
"I yam what I yam, and that's all I yam" (io sono quel che sono, e questo è tutto quel che sono) era una delle sue taglines preferite.

Nell'immagine: la prima apparizione di Popeye.

Il personaggio divenne in breve popolarissimo, protagonista di centinaia di cartoni animati (i migliori sono senza dubbio quelli prodotti negli anni '30 da Max Fleischer).



Si dice - ma chissà se è una leggenda - che i produttori di spinaci gli attribuirono un aumento vertiginoso nel consumo di verdura da parte dei bambini.
Nel 1980 Robert Altman diresse un bizzarro film musicale ispirato alle avventure del marinaio, interpretato da un giovane Robin Williams.



Ma le sue storie più belle rimangono quelle disegnate da Segar, che con il suo segno sintetico e leggermente surreale gli fece vivere avventure estrose, nutrite da una sfrenata fantasia, sempre in bilico tra la comicità e una sana vena anarchica.

Sulle bancarelle dell'usato è ancora facile trovare i volumi Oscar Mondadori dedicati alle sue avventure, o magari recuperare una delle tante ristampe, ad esempio su Linus negli anni '70 o su Comic Art negli anni '80-'90.
Caldamente consigliate.

mercoledì 1 luglio 2009

fredde lacrime

Una delle cose che mi irrita di più nella critica sono gli aggettivi-tapis roulant: vale a dire quelle definizioni che vorrebbero veicolare in automatico un pacchetto di giudizi e valutazioni attraverso un'unica espressione linguistica, perlopiù un luogo comune o una frase fatta, risparmiando così al critico l'onere di trovarsi da sé le parole e di argomentare le proprie opinioni.
Una di queste espressioni è "algido": che in genere significa che una cosa, sì, è bella, elegante, formalmente perfetta, ma che si riduce sostanzialmente a un esercizio di stile privo d'anima.

Un film per il quale ho sentito spesso usare quest'espressione è "Tous les matins du monde", diretto nel 1991 da Alain Corneau e tratto da uno splendido, omonimo libro del 1987 di Pascal Quignard.
La trama, invero piuttosto esile, è incentrata sul rapporto tra due musicisti, entrambi realmente esistiti e vissuti tra il XVII e il XVIII secolo: Marin Marais (interpretato da Gérard Depardieu) e Monsieur de Sainte-Colombe (Jean-Pierre Marielle).
Entrambi furono maestri della viola da gamba, un meraviglioso strumento che stava a metà tra il violoncello e il contrabbasso e che cadde in disuso a partire dalla prima metà del Settecento (le ultime composizioni per viola da gamba le scrisse Bach, ma ai suoi tempi era già quasi un reperto archeologico).
Marin Marais, vissuto tra il 1656 e il 1728, fu un compositore di grande successo, per molto tempo attivo alla corte di Luigi XIV; di Monsieur de Sainte-Colombe, invece, non si sa quasi nulla: visse probabilmente tra il 1640 e il 1700 circa e fu considerato all'epoca il più grande esecutore di viola da gamba dei suoi tempi.
Probabilmente Marais fu allievo di Sainte-Colombe, ma il dato è dubbio, mancando i documenti. Libro e film ricamano sulle poche informazioni note, sviluppano il contrasto tra i due personaggi (Marais il musicista cortigiano, Sainte-Colombe il musicista-asceta, perso nella ricerca della perfezione), ma soprattutto cercano di ricreare, con le parole e con le immagini, le atmosfere dei quadri del Seicento: quelle ombre cariche di tenebra dalle quali le figure emergono con un rilievo abbacinante; i giochi di luce sui piatti di porcellana o sulle più umili verdure; l'amoroso studio dei riflessi su una brocca di vino rosso; la grana dei broccati e dei velluti.
"Film algido", si dice spesso. Ma, a parte il fatto che contribuì alla riscoperta della musica di Sainte-Colombe, e già non sarebbe un merito da poco, io ricordo che lo vidi al cinema quando uscì (avevo 16 anni) e ne rimasi folgorato, oltre che commosso fino alle lacrime.
E probabilmente nacque (anche) da lì la mia passione smodata per la musica barocca, passione alla quale ho cercato con scarso successo di iniziare mia moglie.

Tutto ciò nasce dal fatto che, per puro caso, ho scovato su YouTube qualche scena del film.
Questa che vi propongo ha per protagonista Sainte-Colombe che, dopo la morte dell'amatissima moglie, si è ritirato a vivere in una casa in mezzo ai boschi, con l'unica compagnia delle due giovani figlie. Mentre suona, da solo in una piccola capanna, la moglie gli appare (fantasma? allucinazione?), per poi svanire insieme alla musica.
E' per me un momento di pura poesia, rafforzato anziché indebolito dal preziosismo formale.
Le musiche sono eseguite dal grande Jordi Savall.
Buona visione e buon ascolto.